martedì 5 ottobre 2010

I princìpi di federalismo fiscale nella legge delega n.42/2009

Ha scritto qualche giorno fa sul Corriere della Sera Giovanni Belardelli che “molti anni fa un grande storico, Franco Venturi, definì il fascismo come il «regno della parola», appunto per il peso sempre maggiore che vi aveva acquistato la dimensione oratoria fatta di proclamazioni altisonanti e retoriche. Quella stessa definizione si applica altrettanto bene all’Italia di oggi, alla sua vita politica fatta sempre più di formule e di parole, di provvedimenti annunciati con grandi fanfare ma che poi si perdono nei meandri di Montecitorio o Palazzo Madama”.

A leggere i titoli di diversi giornali ed a sentire i leader di qualche partito politico, anche il federalismo farebbe parte, almeno allo stato dell’arte, delle “proclamazioni altisonanti e retoriche”; e, anche la legge delega sul federalismo fiscale, la legge 42/2009, che secondo alcuni “segna una tappa fondamentale nella vita istituzionale e politica dell’Italia”(1), secondo altri non sarebbe che una “scatola vuota”.

Sulla Stampa del 10/09/2010, Luca Ricolfi, che si è occupato a più riprese e con competenza del federalismo fiscale, ha continuato a parlare di “scatola vuota”. E di tanto è convinto “non tanto perché diversi decreti delegati devono ancora essere emanati, ma perché anche i decreti delegati sono impostati senza numeri, sono scatole vuote che indicano alcuni meccanismi e soggetti che dovranno attuare il federalismo, ma lasciano del tutto aperti i due punti centrali: quanto dovranno risparmiare le varie amministrazioni, quanta evasione fiscale andrà recuperata in ogni territorio. Detto brutalmente, i decreti delegati sono a loro volta più somiglianti a ulteriori leggi-delega che a norme dotate di un contenuto macroeconomico preciso e vincolante. E dal momento che la base tecnico-statistica per attuare il federalismo fiscale non esiste ancora (né potrebbe essere diversamente, perché una classe politica irresponsabile ha passato quindici anni a discutere di principi, e quasi nulla ha fatto per renderli concretamente attuabili), ci vorranno ancora almeno un paio di anni per far partire il federalismo e per cominciare a capire come esso verrà effettivamente attuato”.

In realtà qualcosa di concreto e forse anche di serio e condivisibile nella legge delega n.42/2009 c’è.


Per capire dove vi sono segnali di inversione della rotta è necessario partire da questa considerazione.

Seguiamo il Prof. Luca Antonini, Presidente della Commissione paritetica sul federalismo fiscale.

In Italia, se si escludono le pensioni e gli interessi passivi, la spesa pubblica “si riparte ormai a metà tra il comparto Stato e quello Regioni/Enti locali, ma quest’ultimo ha una responsabilità impositiva inferiore al 18%. Si è realizzata quindi una forte dissociazione della responsabilità impositiva da quella di spesa. Si è interrotto il centralismo, ma non si è creato il federalismo”.

Probabilmente proprio questa forma di deresponsabilizzazione ha creato differenze ingiustificate nei costi dei servizi.

La legge delega ritiene di superare le differenze macroscopiche nei costi dei servizi abbandonando il criterio della spesa storica ed introducendo il criterio del finanziamento al costo standard.

Infatti, all’art. 1, comma 1, così recita: “La presente legge costituisce attuazione dell'articolo 119 della Costituzione, assicurando autonomia di entrata e di spesa di comuni, province, città metropolitane e regioni e garantendo i princìpi di solidarietà e di coesione sociale, in maniera da sostituire gradualmente, per tutti i livelli di governo, il criterio della spesa storica e da garantire la loro massima responsabilizzazione e l'effettività e la trasparenza del controllo democratico nei confronti degli eletti”.

All’art. 2, comma 2, lettera f), la medesima legge impegna i futuri decreti legislativi ad essere informati a princìpi, criteri e direttive generali che tengano conto, tra l’altro, della”determinazione del costo e del fabbisogno standard quale costo e fabbisogno che, valorizzando l'efficienza e l'efficacia, costituisce l'indicatore rispetto al quale comparare e valutare l'azione pubblica”.

Si può parlare di scatola vuota di fronte a criteri e direttive così precise?

Si potrà dire di essere in disaccordo nel superamento del criterio della spesa storica con l’introduzione del criterio del finanziamento dei servizi essenziali al costo standard; si potrà dire che “l'istituzione ed il funzionamento del fondo perequativo per i territori con minore capacità fiscale per abitante” non è condivisibile; ma sarà piuttosto difficile poter difendere, a fronte di differenze gigantesche nei costi dei servizi, il criterio del finanziamento dei servizi essenziali in base alla spesa storica.

E’ sempre il Prof. Antonini a far rilevare che “in Italia ci sono differenze ingiustificate, basta leggere le relazioni regionali della Corte dei Conti: non è concepibile che una sacca per le trasfusioni costi in Calabria quattro volte di più di quanto costa in Emilia Romagna. o che una tac costi in un alcune parti del Paese 800 euro e in altre 500, o ancora che la spesa pro capite per bambino negli asili nido a Roma sia di 16000 euro e 7000 a Modena, che pure è un modello premiato a livello internazionale”.

Possono essere accettate queste differenze di costi nei servizi?

E’ di tutta evidenza che finanziando i servizi secondo il criterio della spesa storica si finanziano anche gli sprechi e le inefficienze della pubblica amministrazione.

Ma, dopo aver sottolineato le differenze macroscopiche dei costi dei servizi, dopo aver riconosciuto che è necessario invertire la rotta e che la progressiva introduzione del criterio del costo standard è sicuramente utile ad eliminare sprechi ed inefficienze, la domanda da porsi è: cosa c’entra tutto ciò con il federalismo fiscale? I principi di cui innanzi hanno a che fare con il federalismo fiscale o non sono altro che principi necessari a razionalizzare la spesa pubblica?

Relativamente a ciò Gianluigi Bizioli ha scritto: “Credo che l’espressione federalismo fiscale sia solo un’etichetta. Di fatto è una grande operazione di contenimento della spesa pubblica locale, con pochi strumenti di imposizione alle regioni”.

Ma di questo parleremo più nel dettaglio in un prossimo articolo.


Note:

1) Prof. Luca Antonini, Presidente della Commissione paritetica sul federalismo fiscale. “La prospettiva del nuovo federalismo fiscale”.


Per meglio comprendere alcuni termini utilizzati nel testo si propone parte di una legenda elaborata dal Prof. Luca Antonini, Presidente della Commissione paritetica sul federalismo fiscale, nell’elaborato richiamato nella nota.


SPESA STORICA: è il perverso meccanismo di finanziamento su cui si è basata per decenni la finanza regionale e locale italiana. Il finanziamento avviene in base a quanto si è speso l’anno precedente: più un ente ha speso, più viene finanziato, più ha risparmiato, tanto meno viene finanziato.

COSTO STANDARD: è l’antidoto al criterio di finanziamento in base alla spesa storica. Vi sono vari modi di calcolarsi, in genere coincide con la media dei costi applicati nelle realtà regionali e locali più virtuose.

LIVELLI ESSENZIALI: si tratta dei livelli dei diritti civili e sociali che devono essere garantiti in modo uniforme su tutto il territorio nazionale.

PEREQUAZIONE: si tratta del meccanismo che consente alle Regioni più povere, cioè quelle con minore capacità fiscale, di ricevere risorse dallo Stato da un fondo, detto appunto “fondo perequativo”, per poter finanziare i livelli essenziali dei diritti a tutti i cittadini. Con il nuovo federalismo fiscale è garantita la trasparenza riguardo alle Regioni che prendono e a quelle che danno risorse al fondo perequativo.

avv. Mimì Pace

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martedì 1 giugno 2010

Noterelle sul federalismo all'italiana

In occasione della Festa nazionale della Repubblica pubblichiamo una interessante riflessione dell'avvocato Mimì Pace su uno dei temi cruciali su cui discute e si appresta a legiferare la politica italiana: il federalismo.
Tema scivoloso e molto spesso strumentalizzato, si configura - tuttavia - come minaccia o opportunità a seconda delle letture che di esso voglia farsi.
In ogni caso, l'avvocato Pace cerca di chiarire meglio i termini della questione illustrando confronti, analogie e differenze con gli altri Stati che hanno adottato questo modello di Stato.


Premessa

Franco Venturi è stato tra i fondatori del Movimento Federalista Europeo. E’, pertanto, del tutto naturale che il sito dell’associazione che porta il suo nome ospiti un testo pensato come tentativo di informazione sul federalismo ed, in particolare, sulla riforma “federale” dello Stato italiano.

Non è accettabile che, in un Paese dove tutti i partiti si dichiarano favorevoli al federalismo, dove è in corso un processo di riforma federale dello Stato che nei prossimi mesi prenderà forma e sostanza e forse, nel tempo, cambierà i rapporti tra cittadino ed istituzioni, se ne parli solo per slogan ed in maniera confusa ed approssimativa.

La complessità del discorso mi obbliga ad intervenire sull’argomento sia per un inquadramento storico del federalismo, con riferimento alle esperienze di Stati federali effettivamente operanti nel mondo (sarà l’oggetto del presente testo), sia per una informazione più puntuale sul federalismo delineato dalla riforma del titolo V della nostra Costituzione e dalla legge delega n. 42/2009 (sarà oggetto di un successivo scritto).

Premetto, però, un po’ polemicamente, che se si apre un qualsiasi dizionario italiano, alla voce “federare” si trova attribuito il significato di “unire, aggregare”.

Nella storia, in effetti, lo Stato Federale nasce per unire, per aggregare, e ciò è con evidenza sintetizzato nel simbolo dello Stato Federale moderno per eccellenza, gli Stati Uniti di America, che ha impresso il motto “E PLURIBUS UNUM”: da molti, uno.


Lo Stato Federale e la Confederazione di Stati. Differenze

Si suole far nascere lo Stato Federale moderno con la fondazione, nel 1787, della Federazione degli Stati Uniti d’America.

Le colonie che vinsero la guerra contro la madre patria e che avevano in un primo tempo dato forma ad una confederazione, diedero vita alla federazione, passando da una situazione di Stati sovrani che avevano stipulato un accordo per regolare delle materie di interesse comune (confederazione) alla creazione di una federazione che “è l’atto di sovranità di un popolo tutto intero, il quale crea un nuovo stato, gli dà una costituzione e lo sovrappone, in una sfera più ampia, agli stati antichi” (L. Einaudi).

Sottolineo che nella confederazione, gli Stati che la compongono, continuano a rimanere pienamente sovrani; con la creazione dello Stato federale, invece, il singolo Stato rinuncia alla sovranità o ad una parte di essa che viene, pertanto, trasferita allo Stato federale.

Confesso che, essendo queste differenze abbastanza facili da comprendere, ho sempre pensato, specie nel periodo in cui il dibattito su questi argomenti era condotto dal prof. Gianfranco Miglio, che la confusione e la distorsione di significato del termine federalismo fosse in parte voluta.

Ho sempre pensato, cioè, che il partito che più di tutti diceva e dice di volere il federalismo pensa in realtà ad una forma di confederazione di Stati e, sostenendo un percorso esattamente contrario alla storia ed al motto “E PLURIBUS UNUM” scritto sul simbolo degli Stati Uniti d’America, vuole dividere lo Stato unitario per farne più di uno. Qualche anno fa, in un testo significativamente intitolato “Il falso federalismo”, Antonio Iannello, combattivo e valente studioso meridionale, ha scritto: “questo termine così come è utilizzato oggi nel dibattito politico italiano, non ha più alcun legame con il suo significato originario: il federalismo è divenuto sinonimo di disgregazione, separazione, divisione e, addirittura, secessione”.


Le esperienze storiche di Stati federali e regionali

Sembrerebbe che l’unica esperienza storica che abbia sino ad ora trasformato uno Stato unitario in Stato federale sia quella che ha interessato il Belgio. Altri esempi di Stati che da unitari si sono trasformati in federali sembra non ve ne siano.

Vi sono, invece, diversi esempi di Stati unitari che si sono trasformati in Stati regionali o che, da Stati unitari centralizzati, hanno dato vita a disparate forme di autonomie locali.

Ma quali sono le differenze che caratterizzano lo Stato federale e lo Stato regionale?

Secondo parte della dottrina, gli Stati membri dello stato federale continuerebbero ad essere stati sovrani o a conservare almeno parte della sovranità che non verrebbe ceduta nella sua interezza dal singolo Stato allo Stato federale al momento della sua formazione; secondo un’altra parte della dottrina la differenza sarebbe nella quantità di autonomia che gli Stati membri dello Stato federale avrebbero rispetto a quella delle regioni che compongono lo Stato unitario. Secondo quest’ultima teoria lo Stato membro della federazione sarebbe dotato non di sovranità ma solo di una maggiore autonomia rispetto a quella delle regioni che compongono lo Stato unitario. Pur essendovi una sostanziale differenza tra Stato federale e Stato regionale nella maggior parte degli Stati regionali sarebbero presenti germi di federalismo.


Federalismo e democrazia – Federalismo e fisco

Il dibattito sul federalismo, in Italia, ruota attorno a due argomenti fondamentali: quello di una maggiore partecipazione democratica e quello del cosiddetto federalismo fiscale.

Solitamente, in Italia, si associa il federalismo ad una maggiore partecipazione democratica e ad una maggiore efficienza della pubblica amministrazione e della macchina amministrativa.

Le esperienze storiche ci dicono che la scelta del modello di Stato federale non ha necessariamente significato maggiore democrazia. Se si escludono gli Stati Uniti d’America e si pensa agli altri esempi di Stati federali delle Americhe (Argentina e Brasile), difficilmente si potrà sostenere che il federalismo abbia automaticamente significato maggiore democrazia e maggiore partecipazione popolare.

Lo Stato centralista o con poco decentramento di poteri non ha comportato, necessariamente, nella esperienza storica ed in particolare in quella dei Paesi europei, inefficienza della pubblica amministrazione. Se si pensa a Stati centralisti come la Francia e la Gran Bretagna difficilmente si potrà sostenere che centralismo ed inefficienza della pubblica amministrazione vanno a braccetto o che si generano o alimentano a vicenda. Si tratta, al contrario, di Stati la cui pubblica amministrazione, da lungo tempo, è emulata da altri Paesi per la loro efficienza e ciò è ancor più vero se ci riferiamo ai Paesi dell’Europa del Nord, Svezia, Norvegia, Finlandia, la cui pubblica amministrazione è ritenuta tra le più efficienti ed incorrotte del mondo.

Anche l’accostamento tra federalismo e decentramento fiscale, strettamente associato nel dibattito politico italiano, non ha riscontri storici concreti.

E’ una favola tutta italiana quella che ci racconta che con il federalismo le imposte e le tasse rimangono per la maggior quantità nei territori che le hanno pagate: le esperienze storiche in genere e in particolare quella degli Stati Uniti d’America, che viene per lo più presa ad esempio, ci dicono esattamente il contrario.

Dicevano i federalisti americani che lo Stato, se non conserva la piena sovranità in materia fiscale, diventa “un puro nome”, diventa cioè assolutamente impotente. E, per sancire tali principi, nella Costituzione americana è scritto, in maniera chiara ed inequivoca, che il Congresso, cioè lo Stato Federale, “avrà il potere: di imporre e percepire tasse, diritti, imposte e dazi ….Nessuno Stato potrà, senza il consenso del Congresso, stabilire imposte o diritti … e il gettito netto di tutti i diritti e di tutte le contribuzioni…sarà a disposizione della tesoreria degli Stati Uniti; e tutte le leggi relative saranno soggette a revisione e a controllo da parte del Congresso” (stralci dall’art. 1 della Costituzione degli Stati Uniti d’America).

Come si evince dall’art. 1 della Costituzione degli Stati Uniti d’America, il federalismo, relativamente all’aspetto fiscale, tende decisamente verso il centralismo.

Vi è, invece, in Italia, qualche proposta che prevede una trattenuta del prelievo fiscale a favore del territorio pari al 70%! Piero Giarda, in un saggio dal titolo Regioni e federalismo fiscale rilevava che, nella storia del pensiero economico finanziario, il termine “federalismo fiscale” nasce come reazione “all’eccesso di localismo e all’eccesso di differenze tra enti locali e tra Stati esistenti in uno Stato federale. Afferma una esigenza di uniformità e di centralizzazione rispetto all’eccesso di differenziazione e di decentramento storicamente determinato in una società”.

avv. Mimì Pace

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sabato 8 maggio 2010

Noi ci siamo


Questo è l'inizio del post. E questa è la sua continuazione. (continua a leggere l'articolo...)

lunedì 4 gennaio 2010

Lo strano caso del "piano Casa" ad Avigliano

Premessa

La Regione Basilicata, con la legge n. 25 del 7 agosto 2009 (nota come “Piano Casa”), ha inteso promuovere iniziative finalizzate al “sostegno al settore edilizio attraverso interventi straordinari finalizzati a migliorare la qualità abitativa, ad aumentare la sicurezza del patrimonio edilizio esistente, a favorire il risparmio energetico e l’utilizzo di fonti di energia rinnovabile, a ridurre il consumo dei suoli attraverso il riuso del patrimonio edilizio esistente”. Questo è quanto si afferma in premessa.

Le tipologie di interventi sono principalmente di due tipi: ampliamento o demolizione e ricostruzione.

Gli interventi previsti consentono un ampliamento massimo del 20% degli edifici esistenti o in fase di realizzazione, per una superficie di max 40 mq. per unità immobiliare. L’ampliamento è incrementato fino al 25% se vengono rispettati alcuni parametri relativi al risparmio energetico e all’utilizzo di fonti alternative.

Gli interventi di demolizione e ricostruzione prevedono un premio volumetrico del 30% o del 40% sempre se vengono rispettati alcuni parametri relativi al risparmio energetico e all’utilizzo di fonti alternative.

La Legge Regionale stabilisce il rispetto delle norme relative alle distanze (previste dai piani urbanistici in vigore), alle costruzioni in zona sismica e al miglioramento delle prestazioni energetiche dell’edificio.

Tutto ciò è realizzabile in deroga agli strumenti urbanistici vigenti e ai limiti imposti dalla normativa regionale per quei Comuni - come Avigliano - non ancora dotati di Regolamento Urbanistico. Da un lato la Regione pone dei limiti all’edificazione nei Comuni sprovvisti dei nuovi strumenti previsti dalla legge 23/1999, dall’altro consente di ampliare le unità immobiliari fino al 40% con conseguenze immaginabili per gli enti che stanno predisponendo il proprio Regolamento Urbanistico.

La legge 25/2009 stabilisce anche dei divieti; in particolare non sono consentiti interventi su edifici che risultino (art.6, comma 1):

a) ubicati all’interno dei centri storici o tessuti di antica formazione, perimetrati negli strumenti urbanistici vigenti, riconducibili alle zone territoriali omogenee “A” del D.M. 1444/1968;

b) ubicati all’interno dei tessuti consolidati, perimetrati negli strumenti urbanistici vigenti, riconducibili alle zone territoriali omogenee “B” sature del DM 1444/1968 e definiti di valore storico, culturale o architettonico dagli strumenti urbanistici comunali vigenti, benché non vincolati ai sensi del D. L.vo 42/2004.

Gli interventi, inoltre, non sono consentiti su edifici che risultino (art.6, comma 4):

a) realizzati in assenza di titolo abilitativo;

b) ubicati in aree a vincolo di inedificabilità assoluta previste negli strumenti di pianificazione paesaggistica ed urbanistica vigenti alla data di entrata in vigore della presente legge;

c) definiti beni culturali ai sensi dell’art. 10 del D.L.vo 42/2004;

d) ubicati in aree dichiarate di notevole interesse pubblico ai sensi dell’art. 136 del D.Lvo 42/2004;

e) ricadenti nelle aree indicate all’art. 142 comma 1. lettera a), b), g), m) del D.Lvo n.42/2004;

f) ricadenti nelle aree indicate all’art. 142 comma 1. lettera f) del D.Lvo n.42/2004, limitatamente alla zona 1 delle aree destinate a parco, di elevato interesse naturalistico e paesaggistico, e nelle aree a riserve naturali nazionali e riserve integrali regionali;

g) ubicati in ambiti a rischio idrogeologico ed idraulico come riportati nei Piani Stralcio redatti dalle Autorità di Bacino competenti sul territorio regionale.

La legge ha una validità temporale di 24 mesi.

Fatta questa veloce premessa passiamo alle deroghe, consentite ai Comuni, previste dalla normativa.


Le deroghe

La Legge Regionale prevede che i Comuni, entro il termine di 90 giorni dall’entrata in vigore, con motivata deliberazione possono:

1. perimetrare ulteriori ambiti territoriali dove non sono consentiti gli interventi di cui in premessa;

2. derogare, per limitate parti del territorio, ai limiti imposti dall’art.6, comma 1;

3. derogare alle previsioni circa gli aumenti di superficie da assegnare.

La relativa delibera deve essere trasmessa alla Regione Basilicata che, entro 30 giorni, dovrà manifestare il proprio parere vincolante. L’inutile decorso di tale termine vale come silenzio-assenso.

Il Comune di Avigliano, con una delibera di Consiglio dello scorso novembre approvata all’unanimità, “per favorire l’applicazione più ampia della legge stessa e consentire, anche in considerazione delle tipologie costruttive diffuse nel territorio comunale, ad un maggior numero di cittadini l’accesso ai benefici cui è finalizzata la legge regionale” ha chiesto:

a) di consentire l’applicazione della legge regionale n. 25/2009 anche nelle zone territoriali omogenee “A” e “B” di cui al D.M. 1444/1968, ubicate nella frazione di Lagopesole;

b) di consentire l’applicazione della legge regionale n. 25/2009 anche nelle zone omogenee “A” ubicate nel centro urbano di Avigliano, ove sussistano le tipologie edilizie di cui all’art. 2, comma 1, della legge medesima;

c) di incrementare il limite massimo di superficie complessiva (Sc) ai fini dell’applicazione della L.R. 25/2009 di cui all’art. 2 della stessa fissandolo in 300 mq per gli edifici a tipologia monofamiliare ed in 600 mq per gli edifici a tipologia bifamiliare e plurifamiliare;

d) di stabilire nel limite massimo del 30% (trenta per cento) la superficie complessiva di ampliamento (Sc) di cui all’articolo 2, comma 1, della legge regionale già citata, e quindi nel limite massimo di 90,00 mq per ciascuna unità immobiliare nel caso di edifici residenziali monofamiliari e nel limite massimo di 180,00 mq per gli edifici residenziali bifamiliari e plurifamiliari;


Brevi considerazioni

La delibera consiliare merita alcune riflessioni in ordine alle deroghe chieste alla Regione e per evitare (in caso di bocciatura) di illudere i cittadini sui benefici effetti del “Piano Casa”.

Analizziamo nei dettagli ciò che il Comune di Avigliano chiede:

1. L’incremento del limite massimo di superficie complessiva e di conseguenza la superficie di ampliamento rende chiaro l’obiettivo di realizzare non certo volumi destinati a bisogni concreti, ma di consentire la creazione di nuove unità – di 90 mq – che aumentano ulteriormente il consumo di suolo. Ma non è certamente questa la critica maggiore che viene fatta alla delibera.

2. Per quanto riguarda il Centro Storico di Avigliano – zona “A” – la Legge consente, per limitate parti, di derogare ai limiti imposti. Il Comune chiede, invece, di applicare all’intera zona la possibilità di ampliamenti con conseguenze ben immaginabili. Basti pensare ai contenziosi che si potrebbero avviare relativamente al rispetto delle distanze o delle norme per gli edifici in zona sismica. Laddove è possibile intervenire con ampliamenti e/o soprelevazioni già i Piani di Recupero vigenti prevedono possibilità di intervento. Sarebbe stato più opportuno, qualora ce ne fossero le condizioni, individuare zone ben definite sulle quali consentire ulteriori ampliamenti. È questo che consente la Legge 25, non una politica urbanistica indiscriminata e indifferente ai valori del costruito.

3. Il discorso relativo a Lagopesole è di diversa natura. Si tratta – ci tengo a sottolinearlo – di una valutazione personale fatta leggendo quanto stabilito dalla Legge 25/2009. Secondo me, la deroga richiesta per la frazione di Lagopesole non rientra nelle facoltà del Comune, in quanto si tratta di “area dichiarata di notevole interesse pubblico” con DM 4 marzo 1991 e perciò tale da non consentire gli interventi di ampliamento previsti. La norma consente la deroga solo per i limiti imposti dall’art.6, comma 1 e non per quelli di cui all’art.6, comma 4, fra i quali rientra proprio il territorio di Lagopesole.

Non posso pensare che tutto ciò non sia stato valutato attentamente da un punto di vista tecnico oltre che politico da chi era chiamato ad esprimersi in proposito. Sicuramente pressioni molto forti hanno fatto sì che una decisione del genere venisse portata in Consiglio, dove la maggior parte dei componenti è stata fuorviata dalla necessità di consentire a tutti i cittadini di poter usufruire dei benefici della Legge.


Epilogo

Ancora una volta (dopo l’esperienza fatta con la prima bozza del Regolamento Urbanistico) rischiamo, molto concretamente, di fare una figuraccia a livello istituzionale. Quasi sicuramente la Regione Basilicata esprimerà parere contrario a quanto richiesto dal Comune di Avigliano (a meno che non scatti il silenzio-assenso!).

E questo non è che il risultato di una politica di gestione del territorio caratterizzata da 15 anni di inerzia e di mancanza di progettualità.

Ai poster(i) l’ardua sentenza!

Peppino Vaccaro

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