venerdì 20 novembre 2009

La società civile sede privilegiata di democrazia

La democrazia è in crisi e la società civile non sta meglio.
Le difficoltà dell’una sono le difficoltà dell’altra.
Sulla crisi della democrazia, non mi pare che ci sia molto da dire, in più di quel che sappiamo. Se non bastasse la realtà di cui tutti facciamo esperienza nei piccoli e grandi rapporti di vita quotidiana – prima ancora che nella vita delle istituzioni -, ci sono studi ponderosi che parlano della democrazia odierna nella luce spettrale di un “totalitarismo capovolto”.
Si elaborano griglie concettuali per “misurare” le democrazie esistenti, e ciò meno per rilevare progressi, e più per attestare regressi verso il punto-zero al di là del quale, di democratico, resta la forma ma non la sostanza.
Ritornano antiche immagini biologiche delle società, paragonate ai corpi naturali viventi che, come nascono, sono destinati a morire.
Nulla, nelle opere degli uomini è eterno e così, oggi, quest’idea del ciclo vitale si applica alla democrazia.
La caduta dei totalitarismi del secolo scorso sembrava avere aperto l’èra della vittoria della democrazia su ogni altra forma di governo degli uomini.
Dalla seconda metà del secolo XX, si cominciò a mettere tutte le concezioni e le azioni politiche in rapporto con la democrazia, diventata quasi un concetto idolatrico comprensivo di tutte le cose buone e belle riguardanti gli Stati e le società, in tutte le loro articolazioni, dalla famiglia, al partito, al sindacato, alle Chiese, alla comunità internazionale.
Questa connotazione positiva era un rovesciamento di antiche convinzioni.
Fino allora, la democrazia era stata associata all’idea della massa senza valore, egoista, arrogante, faziosa, instabile e perciò facile preda dei demagoghi.
Il giudizio negativo di Platone fece scuola nei secoli: la democrazia come regime in cui il popolo ama adularsi, piuttosto che educarsi: «un tal governo non si dà alcun pensiero di quegli studi a cui bisogna attendere per prepararsi alla vita politica, ma onora chiunque, per poco che si professi amico del popolo».
Oggi, nel senso comune, non c’è un ri-rovesciamento a favore di concezioni antidemocratiche.
C’è piuttosto un accantonamento, un fastidio diffuso, un “lasciatemi in pace” con riguardo ai discorsi democratici che, sulla bocca dei potenti, per lo più puzzano di ideologia al servizio della forza e, nelle parole dei deboli, spesso suonano come vuote illusioni.
Non c’è bisogno di consultare la scienza politica per incontrare sempre più frequentemente una semplice domanda - «democrazia: perché?» -, una domanda che, solo a formularla, suona come espressione del disincantamento a-democratico del tempo presente e mostra tuttavia l’oblio di una durissima verità: che, salve le differenze esteriori, prima della democrazia c’è stata una dittatura e, dopo, ce ne sarà un’altra.
Che bisogno c’è oggi, in effetti, di democrazia?
Con questa domanda, ci spostiamo dalla parte della “società civile”.
È lì la sua sede, il luogo della sua forza o della sua debolezza.
Nel senso in cui se ne parla correntemente oggi, la società civile è il luogo delle energie sociali che esprimono bisogni, attese, progetti, ideali collettivi, perfino “visioni del mondo”, che chiedono di manifestarsi e trasformarsi in politica.
Chiedono di prendere parte alla vita politica e di esprimersi nelle istituzioni: chiedono cioè democrazia.
Se la società si spegne, cioè si ripiega su se stessa e sulle sue divisioni corporative, essa diviene incapace di idee generali, propriamente politiche, e il suo orizzonte si riduce allo status quo da preservare, o alle tante posizioni particolari ch’essa contiene – privilegi grandi e piccoli, interessi corporativi, rendite di posizione - da tutelare.
Basta allora l’amministrazione dell’esistente; cioè la tenuta dell’insieme e la tutela dell’ordine pubblico: in altre parole, la garanzia dei rapporti sociali de facto.
Di fronte a una società politicamente inerte può ergersi soltanto lo Stato amministrativo che si preoccupa di sopravvivenza, non di vita; di semplice, ripetitiva e, alla lunga, insopportabile riproduzione sociale.
Ma, se questo – la sopravvivenza - è il mandato dei governati ai governanti, ciò che occorre è soltanto un potere esecutivo forte e un apparato pubblico almeno minimamente efficiente.
Non c’è bisogno di politica e, con la politica, scompare anche la democrazia.
Infatti, mentre ci può essere politica senza democrazia, non ci può essere democrazia senza politica.
Non avendo nulla di nostro che vogliamo realizzare, tanto vale consegnarci nelle mani di un qualche manovratore e, per un po’, non pensarci più.
Con queste considerazioni, si spiega l’orientamento che a poco a poco prende piede, a favore di un ri-disegno dei rapporti tra i poteri costituzionali, con l’esecutivo predominante sugli altri.
L’investitura popolare diretta del capo, depositario d’un potere tutelare illimitato, contrariamente all’apparenza di parole d’ordine come innovazione, trasformazione, riforme, decisione, ecc. è perfettamente funzionale alla sconfitta della politica democratica, cioè della politica che trae alimento dalla vitalità della società civile.
Non solo: più facilmente, sarà funzionale alla sconfitta della politica tout court e alla vittoria della pura amministrazione dell’esistente, cioè alla cristallizzazione dei rapporti sociali esistenti.
Di per sé, il pericolo non è l’autoritarismo, anche se può facilmente diventarlo, le volte in cui si tratta di cancellare o reprimere istanze politiche non integrabili nell’amministrazione dell’esistente.
Il pericolo immediato è la garanzia della stasi, cioè la decomposizione ulteriore della nostra società in emarginazioni, egoismi, ingiustizie, illegalità, corruzione, irresponsabilità.
Se non si tratta necessariamente di autoritarismo, non è nemmeno un semplice ammodernamento della Costituzione. L’impianto su cui questa è stata consapevolmente costruita è quello di una società civile che esprime politica, a partire dai diritti individuali e collettivi, per concludersi nelle istituzioni rappresentative, con i partiti come strumenti di collegamento.
Questa costruzione costituzionale, però, è soltanto un’ipotesi. I Costituenti, nel tempo loro, potevano considerarla realistica. I grandi principi di libertà, giustizia e solidarietà scritti nella prima parte della Costituzione, allora tutti da attuare, segnavano la via lungo la quale quell’ipotesi avrebbe trovato la sua verifica storica.
La società italiana, o almeno quella parte della società che si identificava nei partiti, poteva darle corpo.
Si può discutere se e in che misura questo corpo sia stato fin dall’inizio deformato dalla “partitocrazia” e se, quindi, le istituzioni costituzionali siano diventate uno strumento di affermazione più di partiti, che della società civile, tramite i partiti.
Tutto questo è discusso e discutibile.
C’erano comunque istanze politiche che chiedevano accesso alle istituzioni. La democrazia costituzionale si è costruita su questa ipotesi, che per un certo tempo ha corrisposto alla realtà.
Ora, siamo come a un bivio. La strada che si imboccherà dipende dall’attualità o dall’inattualità di quell’ipotesi.
Noi non contrasteremo le deviazioni dall’idea costituzionale di democrazia soltanto denunciandone l’insidia e i pericoli, cioè parlandone male. In carenza di una sostanza – cioè di istanze politiche venienti da una società civile non disposta a soggiacere a un potere che cala dall’alto – perché mai si dovrebbero difendere istituzioni svuotate di significato?
Le istituzioni politiche vitali sono quelle che corrispondono a bisogni sociali vivi. Se no, risultano un peso e sono destinate a essere messe a margine.
Qui si innesta il compito della società civile, nei numerosissimi campi d’azione che le sono propri, e delle sue tante organizzazioni che operano spesso ignorate e sconosciute, le une alle altre.
La formula di democrazia politica che la Costituzione disegna è per loro. La sua difesa è nell’interesse comune. Non c’è differenza, in questo, tra le associazioni che operano per la promozione della cultura politica e quelle che lavorano nei più diversi campi della vita sociale. C’è molto da fare per unire le forze.
E c’è molto da chiedere a partiti politici che vogliano ridefinire i loro rapporti con la società civile: innanzitutto che ne riconoscano quell’esistenza che troppo spesso è stata negata con sufficienza, e poi si pongano, nei suoi confronti, in quella posizione di servizio politico che, secondo la Costituzione, è la loro.

(Testo integrale dell'intervento di Gustavo Zagrebelsky al convegno “Fare democrazia” - Genova, 8/11/2009)
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domenica 14 giugno 2009

Una legge elettorale dal sapore Acerbo. E forse peggio.

Il referendum in materia elettorale del 21 giugno, rischia di compiere il capolavoro di sostituire una legge pessima, quella attualmente in vigore, con una ancora peggiore.
Una legge che non restituirebbe agli elettori la possibilità di scelta che il “Porcellum” gli ha tolto introducendo le “liste bloccate”, e anzi, li priverebbe anche dell’ultima libertà rimasta.
Vediamo perché.
Tre sono i quesiti sui quali saremo chiamati ad esprimerci.
Uno di essi chiede che venga abrogata la norma che consente ad una stessa persona di candidarsi in più circoscrizioni.
E’ il solo quesito che avrebbe un effetto positivo: impedendo le candidature multiple, eviterebbe che, attraverso l’opzione successiva all’elezione, un candidato praticamente decida chi (evidentemente in base al maggior grado di fedeltà nei confronti del leader) effettivamente prenderà posto in Parlamento.
Ma questo risultato, pur positivo, non cancellerebbe quello che è l’aspetto peggiore del “Porcellum”: RIMARREBBERO COMUNQUE IN VIGORE LE LISTE BLOCCATE, e dunque rimarebbe l’impedimento per l’elettore di scegliere il candidato preferito, e i parlamentari continuerebbero ad essere non eletti, ma nominati da piccoli gruppi di funzionari di partito strettamente legati al capo.
Gli altri due quesiti chiedono che, sia alla Camera che al Senato, i diversi premi di maggioranza che il “Porcellum” prevede siano assegnati non più “alla lista o alla coalizione di liste” che ottiene il maggior numero di voti, come attualmente previsto”.
I due quesiti, infatti, chiedono l’abrogazione delle parole “alla coalizione di liste”, per cui i premi di maggioranza (quello su base nazionale alla Camera, quelli su base regionale al Senato) verrebbero attribuiti alla singola lista che abbia ottenuto più voti.
Significa dunque che, nel caso di presentazione di un numero elevato di liste concorrenti, sarebbe sufficiente ottenere la maggioranza relativa, anche con un consenso elettorale basso, per vedersi assegnato un numero di seggi pari al 55% del totale.
Come sottolinea Fulco Lanchaster, docente di Diritto Costituzionale Italiano e Comparato nella Facoltà di Scienze Politiche dell’Università “La Sapienza” di Roma, darebbe vita ad un sistema di fronte al quale la Legge Acerbo, varata dal regima fascista, finirebbe paradossalmente per risultare “più garantista di quanto prodotto con la legislazione attuale e quella di eventuale risulta” che deriverebbe dal referendum (la legge Acerbo, almeno, prevedeva almeno il raggiungimento del 25% dei voti per l’assegnazione del premio di maggioranza e stabiliva che il premio di maggioranza dei 2/3 dei seggi non sarebbe stato assegnato se nessuna lista avesse raggiunto tale soglia).
Si sostiene, da parte dei promotori dei referendum, che con l’approvazione dei quesiti si andrà verso una semplificazione del quadro politico (e già si potrebbe obiettare che questo risultato è già stato ottenuto con la legge attuale) in direzione dell’affermarsi di un sistema bipartitico.
Che questo realmente accadrebbe, è tutto da dimostrare. L’ipotesi più plausibile, infatti, è che per poter effettivamente concorrere alla conquista dei premi di maggioranza, si verrebbero a formare due listoni (e già questo sarebbe sufficiente a dare ad uno dei due, che in tal caso vincerebbe con una percentuale superiore al 50%, un numero di seggi sufficiente a garantire la governabilità, senza bisogno di poremi di maggioranza) compositi ed eterogenei, da Storace, Romagnoli e Fiore a Mastella e, eventualmente, Casini; da, eventualmente, Casini a Ferrero e Diliberto.
Listoni in cui tornerebbe ad essere determinante il peso delle forze più piccole, che dalla necessità di essere inserite nella lista acquisirebbero un potere di interdizione e di ricatto enorme.
Né per questa via si otterrebbe davvero una semplificazione del quadro politico: è facilmente prevedibile che, dopo aver contrattato ed ottenuto un buon numero di posti in lista (bloccata) in posizione ottimale (dunque con certezza di elezione), i partiti, in particolare i più piccoli, andrebbero poi a costituire gruppi parlamentari distinti.
“La disciplina elettorale che risulterebbe dalla approvazione dei quesiti referendari –sostiene Franco Bassanini- non contiene (non poteva contenere) infatti alcun divieto né introduce alcun limite alla successiva riframmentazione dei partiti che avranno contribuito a formare i due “listoni”, a loro volta definiti attraverso contrattazioni tra le segreterie dei partiti.
Il premio di maggioranza, attribuito a turno unico e senza una soglia minima, costringerà i partiti maggiori a imbarcare nei due listoni tutte le formazioni politiche, anche le più piccole, pena la sconfitta elettorale. Per di più, la normativa risultante dalla approvazione dei quesiti referendari, non contiene alcun rimedio al meccanismo dei premi di maggioranza regionali che rende di fatto ingovernabile il Senato. Né offre un rimedio alla sostanziale espropriazione del diritto degli elettori di esprimere scelte anche sulle persone dei candidati.
Ciononostante, la propaganda del comitato referendario, amplificata da commentatori tanto autorevoli quanto incompetenti, tenta di far credere agli elettori che l’approvazione dei quesiti referendari possa conseguire tutti questi risultati”.
Insomma, il momento in cui si frantuma il quadro politico si sposterebbe (dalla scheda elettorale alla costituzione dei gruppi parlamentari) ma non si cancellerebbe. Con in più, per l’elettore, un’ulteriore beffa: già privato della possibilità di esprimere preferenze in liste plurinominali, gli si toglierebbe anche l’ultima libertà di scelta rimasta, quella, all’interno della coalizione di riferimento, di scegliere un partito piuttosto che un altro, magari proprio dopo aver valutato la composizione delle liste.
Insomma, come sostiene il Presidente Emerito della Corte Costituzionale Piero Alberto Capotosti, “non credo che (il referendum) sia la panacea che risolve i problemi, anzi li aggrava, perché se l’esito del referendum fosse positivo li santificherebbe e li congelerebbe per cui sarebbero immutabili e i difetti corposi che ci sono nell’attuale normativa verrebbero bloccati”.
E questo introduce un’ultima considerazione.
Si sostiene (in particolare il segretario del Partito Democratico Franceschini) che scopo del referendum sia l’abrogazione della Legge 270/2005, ovvero il “Porcellum”, per poi dar vita, nelle aule parlamentari, ad una nuova legge.
Un’affermazione quanto meno azzardata, che in un esame di Diritto Pubblico porterebbe all’immediata bocciatura.
Come Franceschini sa (o dovrebbe sapere) la Corte Costituzionale, in precedenti circostanze, a cominciare da una sentenza (sentenza 29/1987) relativa ad un referendum abrogativo della legge per l’elezione dei membri del CSM, ha sostenuto che in materia di legge elettorale vada esclusa l’ammissibilità di un quesito referendario che ne proponga l’abrogazione totale perché lederebbe il “principio di indefettibilità degli organi costituzionali”, mentre è possibile ammettere referendum in tale materia solo se il quesito prevede un’abrogazione parziale “tale da generare una normativa di risulta coerente al suo interno ed immediatamente applicabile, così da garantire in ogni caso la costante operatività e dunque il rinnovo dell’organo costituzionale” (sentenza 32/1993).
Dunque, ciò che verrebbe fuori dal referendum non sarebbe l’abrogazione della legge attuale e un vuoto legislativo da colmare con una nuova legge, ma una legge pienamente applicabile, con il sigillo datole dall’esito del referendum, dunque dalla volontà popolare (“il sistema che risulterebbe dall’abrogazione delle parole “coalizione di liste” sarebbe perfettamente autoapplicativo. E voglio vedere i parlamentari all’opera, dopo la vittoria dei sì, a modificare la normativa di risulta: gli eventuali dissenzienti avrebbero dalla loro parte l’arma nucleare di un verdetto degli elettori appena uscito dalle urne che codifica la regola del premio alla lista che abbia ottenuto la maggioranza dei voti”: sono parole di Cesare Pinelli, Ordinario di Istituzioni di Diritto Pubblico nella Facoltà di Scienze politiche dell’Università di Macerata).
Questo, ovviamente, non impedirebbe che il Parlamento, in presenza di una volontà dei suoi membri, decidesse di modificare questa legge; ma la questione si sposterebbe qui sul piano politico, e sembra difficile pensare da un lato che l’attuale partito di maggioranza relativa, che sarebbe il primo beneficiario del “Porcellissimum Guzzettae”, sarebbe propenso a modificarlo; e dall’altro, difficile sembra anche pensare alla formazione di una maggioranza trasversale e diversa all’attuale maggioranza di governo in grado di dar vita ad una nuova legge elettorale.
Resta sullo sfondo il problema più generale del referendum in materia elettorale, che proprio in quanto possibile solo se proponga un’abrogazione parziale, crea situazioni nelle quali attraverso lo strumento referendario si vanno a formare nuove leggi, spostando il potere legislativo dalla sua sede naturale e alterando il senso stesso del referendum abrogativo: questione sulla quale i maggiori costituzionalisti italiani molto discutono.
Alla fine, sembra potersi dire che ben avevano visto i Costituenti quando avevano inserito la materia elettorale fra quelle escluse dalla possibilità di esser sottoposte a referendum abrogativo (“Non è ammesso referendum per le leggi tributarie, di approvazione di bilanci, di concessione di amnistia e indulto, elettorali, e di autorizzazione alla ratifica di trattati internazionali», recitava il testo dell’articolo 72, poi diventato 75, nella sua versione originalmente approvata dalla Costituente): una distrazione al momento di stendere il testo finale della Costituzione fece saltare la voce “elettorale” dal testo definitivo, creando la situazione attuale.
Ma è evidente come già in sede di Assemblea Costituente fossero chiari i problemi che ammettere la possibilità di referendum sulle leggi elettorali avrebbe comportato.

Giancarlo Tedeschi
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domenica 19 aprile 2009

Riflessioni sulla bozza del RU


La bozza più recente del Regolamento Urbanistico di Avigliano conferma tutte le perplessità che erano state evidenziate già a partire dal dicembre 2006 e ribadite in varie sedi, quali l’incontro pubblico organizzato nel marzo dello scorso anno dall’Associazione Franco Venturi.
La situazione, se vogliamo, è aggravata dal fatto che è passato ormai un anno ed i risultati che sembrano emergere non rispondono a nessuna delle istanze avanzate.
Cerchiamo di analizzare, per punti, le principali problematiche rimaste insolute:
  • manca totalmente la politica di indirizzo programmatico che spieghi le ragioni di alcune scelte e la confusione creata tra i contenuti previsti dai vari livelli di pianificazione (RU, PSM, PSP e Piani Attuativi) appare totalmente assente;
  • l’impostazione del RU, come più volte evidenziato, non risponde a quanto stabilito dalla normativa e dalle diverse circolari dei competenti organismi regionali: dalla bozza si evince che il “nuovo” strumento non interessa minimamente il patrimonio edilizio esistente e le relative problematiche ricalcando in maniera evidente l’impostazione di un vecchio PRG e limitandosi alla perimetrazione di zone con diverse destinazioni;
  • il dimensionamento del RU (per quanto è stato possibile calcolare, visto che mancano i dati complessivi sui quali impostare qualsiasi previsione) appare eccessivo: da un calcolo approssimativo effettuato tenendo conto dei diritti acquisiti (volumetrie residue del vecchio PRG ecc.) e delle nuove aree di trasformazione e trascurando le aree agro-residenziali (in quanto manca qualsiasi dato di riferimento), si prevedono nuove volumetrie per più di 2000 abitanti. Anche volendo trascurare il numero consistente di stanze vuote presenti principalmente nel Centro Storico (questione invece da approfondire e risolvere), tutto ciò appare fuori da qualsiasi logica di pianificazione, anche tenendo conto del fatto che la popolazione residente del Comune di Avigliano è passata da 12.025 del 2001 a 11.997 del settembre 2008, con un andamento pressoché stazionario. Sarebbe quindi opportuno e necessario conoscere su quali dati si stia operando al fine di evitare previsioni aleatorie che - se fossero vere - andrebbero (oltre che giustificate) inserite più opportunamente in sede di Piano Strutturale Metropolitano;
  • per i centri storici non è stata effettuata nessuna scelta strategica, rinviando al Piano di Recupero vigente l’attuazione degli interventi per Avigliano centro e lasciando, ancora una volta, Lagopesole senza un Piano di dettaglio. È stata prevista una generica norma che consente di aumentare indiscriminatamente del 10 o del 15% la volumetria esistente (anticipando forse il Piano Casa di Berlusconi) o di sopraelevare fabbricati senza una scheda di dettaglio. Non c’è traccia di interventi puntuali tesi a migliorare la qualità urbana dei tessuti esistenti (aumentando ad esempio la dotazione degli standard urbanistici) o a prevedere ipotesi di edilizia sociale e sostenibile;
  • laddove sono previsti interventi e/o destinazioni pubbliche specifiche, mancano le schede di dettaglio che stabiliscano in maniera chiara cosa e come si va realizzare. Lo stesso discorso vale per le aree riservate alle nuove costruzioni da effettuare con interventi diretti per le quali sono previste cessioni di terreno per la realizzazione di spazi pubblici;
  • la perimetrazione degli Ambiti Urbani ha lasciato fuori aree di frangia già edificate e di conseguenza manca qualsiasi intervento di ricucitura che garantirebbe una più coerente struttura urbana;
  • anche la viabilità urbana lascia irrisolti una serie di problemi legati alla carenza di percorsi alternativi dimensionati al carico urbanistico delle varie zone;
  • un discorso più articolato riguarda poi le aree extraurbane o agricole. In questi anni, in virtù di una normativa eccessivamente permissiva prevista dal PRG vigente, si è assistito ad una espansione a macchia d’olio di edilizia residenziale che ha creato il fenomeno, correttamente definito, della “campagna urbanizzata” che crea notevoli problemi gestionali da parte della Pubblica Amministrazione per gli eccessivi costi sociali che provoca. Con la legge regionale 23/99 e con atti successivi, si è cercato di dare indicazioni tese a limitare al massimo il consumo di territorio. Il RU, per la sua connotazione, dovrebbe occuparsi prevalentemente dell’Ambito Urbano, lasciando al Piano Strutturale le indicazioni anche per il territorio extraurbano. Tuttavia, in attesa del Piano Strutturale Metropolitano è giusto che il Regolamento Urbanistico dia delle indicazioni di massima sull’utilizzo del territorio aperto. Il RU di Avigliano opera una scelta abbastanza netta su due versanti: da un lato prevede (come già il vecchio PRG) l’istituzione di aree agro-residenziali (TAR) con indici più favorevoli (che poi vedremo non essere reali), dall’altro abbassa in maniera considerevole (rispetto alle indicazioni regionali) gli indici per le zone agricole. Le aree TAR, previste anche per il centro abitato di Avigliano (novità rispetto al vecchio PRG), stabiliscono un indice fondiario pari a 0,20mc/mq (per le abitazioni), indice che a prima vista potrebbe sembrare incentivante: tuttavia, a ben vedere, si scopre che per un lotto minimo di 1.200 mq occorre un asservimento minimo di terreni pari a 24.000 mq che danno diritto alla costruzione di una residenza di 240 mc pari ad un’abitazione di circa 80 mq lordi. Rifacendo i calcoli viene fuori un indice territoriale It=240/(24.000+1.200)=0,0096 mc/mq. Nelle aree agricole per le abitazioni è previsto un It=0,02 mc/mq per gli imprenditori agricoli e un It=0,01 mc/mq per gli altri soggetti. Se l’intento dell’Amministrazione è quello di favorire le aggregazioni urbane sfruttando le volumetrie delle aree agricole è facile notare come le TAR non prevedono certamente delle agevolazioni, tenendo conto anche del costo di acquisto del lotto edificatorio. È necessario su questo delicato argomento rivedere tutta la normativa prevista, considerando anche che le aree TAR rappresentano una evidente anomalia urbanistica;
  • il concetto di perequazione andrebbe dettagliato meglio perché quello che proposto appare come una generica premialità volumetrica, che nulla ha a che fare con un concetto economico ben più complesso che implica il calcolo dei valori economici di quello che si cede e di quello che si acquisisce;
  • in questa sede si evita, per non annoiare i lettori, di entrare nel merito delle Norme Tecniche di Attuazione, ma occorre rivedere il testo nella sua interezza per evitare errori e contraddizioni con normative in vigore e con atti già deliberati dall’Amministrazione;
  • per ultimo, certamente non per importanza, va sottolineato ancora una volta come il processo decisionale segua percorsi che nulla hanno a che fare con il concetto di “urbanistica partecipata”. Non abbiamo avuto ancora l’opportunità di conoscere pubblicamente e ufficialmente gli indirizzi dell’Amministrazione in merito alle scelte che si stanno operando in sede di redazione del RU (per tacere del PSM e del PSP). Il Comune di Potenza ha presentato la bozza di RU, e contemporaneamente lo ha pubblicato sul proprio sito web, già nel dicembre del 2006. Dopo un iter abbastanza lungo e complesso, nelle scorse settimane il nuovo strumento è stato approvato in Consiglio Comunale con un dibattito molto serrato (che è stato possibile seguire anche in diretta video sul web) sulle 380 osservazioni presentate pari ad un volume di oltre 500 pagine. Per gli aviglianesi sicuramente non sarebbe stato facile da digerire, ma certamente sarebbe stato era più utile prendere a modello quanto di buono fatto da altri.
Evidentemente noi continuiamo a non volerci sottrarre ad un confronto positivo e propositivo sulle scelte che si stanno operando: chiediamo solo che ce ne sia data la possibilità.
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sabato 24 gennaio 2009

Venturi oltre il confino

In occasione della "Giornata della Memoria", il giorno martedì 27 gennaio la nostra Associazione celebra ad Avigliano un ricordo di Franco Venturi distinto in due momenti:
  • il primo (in mattinata) con le scuole, durante il quale - con il contributo della dott.ssa Valeria Verrastro (Archivio di Stato di Potenza) e del prof. Antonello Venturi - si ripercorreranno le tappe della discriminazione razziale e del confino;
  • il secondo, alla sera, con un convegno al quale parteciperanno la prof.ssa Silvia Berti (autrice di una recentissima pubblicazione riguardante un inedito carteggio tra Franco Venturi e Benedetto Croce), il prof. Antonello Venturi (figlio dell'eminente intellettuale), una introduzione di Gennaro Claps (prezioso studioso locale), e con l'amichevole contributo di Elvi Argento.

Di seguito, l'articolo di Nello Ajello pubblicato su La Repubblica del 12.01.2009, riguardante il rapporto epistolare tra Croce e Venturi pubblicato da Silvia Berti.

Croce e Venturi. La libertà perduta
«Senatore e caro Maestro», «Carissimo giovane amico».
Il primo è il settantunenne Benedetto Croce. L´altro è Franco Venturi, ventitré anni, destinato a diventare il maggiore studioso italiano dell´Illuminismo. Scambiandosi quegli appellativi, essi danno inizio nel 1937 a un denso rapporto epistolare - quaranta lettere in totale - che si prolungherà fino al 1950.
In massima parte inedita, la corrispondenza esce a giorni presso il Mulino, a cura di Silvia Berti, in un volume intitolato Carteggio Croce - F. Venturi (pagg. 150, euro 20).
Fra i due esistono rapporti consolidati.
Franco appartiene a una famiglia di illustri tradizioni intellettuali.
Suo nonno, Adolfo Venturi, è stato una figura dominante della critica d´arte a cavallo fra Otto e Novecento; attività ereditata, con una più deliberata apertura agli stimoli della modernità, dal figlio Lionello, padre di Franco.

Nel 1931, Lionello s´era rifiutato di sottoscrivere il giuramento di fedeltà al regime fascista imposto da Gentile ai docenti italiani.
Dal marzo del ´32 l´intera famiglia Venturi s´era stabilita a Parigi. Alla mancata firma sotto l´editto gentiliano s´era aggiunto il coinvolgimento del giovane Franco in quell´ondata giudiziaria che, fra arresti e sospetti, aveva di recente colpito il gruppo antifascista torinese di Giustizia e Libertà.
Come già a Torino, anche nella capitale francese, Croce incontrava i Venturi: una consuetudine che, nata con un marchio intellettuale, si nutriva di umori politici.
Quest´ultima dimensione, insita nei rapporti tra il giovane e l´anziano, resta però sottintesa nelle lettere che essi si scambiano.
Sono, entrambi, sorvegliati speciali. Il filosofo, la cui abitazione napoletana era stata invasa, nell´ottobre del ´26, da una squadraccia fascista, alludeva all´episodio dichiarando di aver «avuto l´onore di ricevere una visita dello Stato Etico».

Quanto a Franco Venturi, il suo nome figurava nell´elenco degli antifascisti da perseguire. A dispetto di ogni cautela usata dai corrispondenti, le loro lettere vengono registrate negli archivi della Polizia.
Come ha sottolineato Silvia Berti nella diffusa introduzione al volume, il cuore di questo dialogo epistolare «sono i libri o, in più d´un caso, l´assenza di libri». Venturi intrattiene Croce sui propri studi e progetti: una ricerca sull´illuminismo piemontese, poi l´abbozzo di un saggio dedicato a Filippo Buonarroti; e via via altri temi che il giovane storico ha già saggiato, da Diderot a una più generale disamina dell´illuminismo francese, da Tommaso Campanella a N. A. Boulanger, da Hegel «storico dell´illuminismo» a un esame della cultura del Settecento nell´intero continente: «Vedo di fronte a me come una meta lontana e in un certo senso ideale», egli specifica, «una storia europea del secolo dei lumi».
Croce incoraggia l´amico. Consente con alcune delle sue diagnosi.
Lo aiuta nel procurarsi i libri.
I libri, appunto, come ricerca. Poi, ben presto, come assenza e rimpianto.
Al quasi dorato esilio parigino, nella vita di Franco Venturi subentra infatti una nuova fase. Nella corrispondenza con Croce ne risuona un´eco desolata. Arrestato a Port Bou dalla polizia franchista nell´ottobre del 1940, mentre cercava di raggiungere Lisbona per poi imbarcarsi per gli Stati Uniti dove la famiglia si era intanto trasferita, Venturi sperimenta per cinque mesi la severità delle carceri spagnole. Prima a Figueras, poi a Madrid e Barcellona. Estradato in Italia, lo custodiscono in carcere a Genova e Torino, finendo con l´assegnarlo al confino.
Destinazione: Monteforte Irpino. È il maggio del ´41. Franco si sente così trasformare - e ne scrive al «caro Maestro» - in «un prigioniero che ha visto interrotto il suo lavoro in cui metteva tutta la sua passione e la sua anima».
Ad Avigliano (Potenza) dove viene trasferito grazie all´intervento del nonno Adolfo presso qualche residuo amico autorevole, va meglio, ma solo un po´. Croce continua a scrivergli. «Soffro per Lei perché so quale spasimo sia non poter avere a mano gli strumenti necessarii ai nostri dubbi e alle nostre ricerche!». E aggiunge: «Se posso esserle utile, mi adoperi».

Ma ecco che vien meno anche il soccorso epistolare. Agli internati, adesso, è consentito di scrivere solo ai familiari: una lettera per settimana, lunga non più di ventiquattro righe. La corrispondenza con Croce prima si dirada, poi tace. Per quattro anni: dal ´42 al ´46.
Dopo la caduta del fascismo, per Venturi s´è aperta una stagione di lotta politica. Egli lavora alla stampa clandestina di Giustizia e Libertà, s´impegna nella Resistenza.

Anche il suo essere crociano subisce l´influenza di nuove idee e pulsioni. Si manifestano, sul pensiero del «caro Maestro», delle riserve che la comune avversione al fascismo aveva mimetizzato.

Sono sfumature che non sfuggono a una studiosa attenta come la curatrice Berti: su più d´un argomento trattato nelle lettere, le pare di avvertire uno scarto di sensibilità fra l´approccio più freddo, prevalentemente filosofico-letterario di Croce e quello passionale e deliberatamente «democratico» di Venturi. Un solo esempio: nell´entusiasmo professato dal giovane studioso per l´illuminismo piemontese la curatrice vede profilarsi l´ombra di Gobetti, non del tutto gradita al filosofo.

La novità, a fascismo appena caduto, è l´idiosincrasia di Croce per Giustizia e Libertà (e per il partito d´Azione che ne è l´erede). L´argomento trascende l´epistolario: lì non se ne parla, anche se altrove Venturi non risparmia a Croce critiche pesanti. E si spiega. Quell´idiosincrasia angustia, in particolare, quegli intellettuali borghesi (fra i quali proprio Venturi) nella cui formazione politico-culturale il direttore della Critica era assurto a simbolo di spirito critico e dignità civile. Il dialogo diretto fra Croce e Venturi diventa, nell´ultima sua fase meno umanamente drammatico, più tecnico, tale da schivare temi scottanti. Ma, fuori, nella società politica, la discussione sul tema del P. d´A. è così aspra e tenace da riflettersi nei rapporti fra Croce e il suo discepolo prediletto, Adolfo Omodeo. Vi si trova coinvolta perfino la cerchia familiare del Senatore: è un fervente «azionista» suo genero, Raimondo Craveri, marito della figlia Elena. Per Croce il partito di Parri e di Lussu è un bersaglio fisso. Lo considera una costruzione insensata, a partire dalla «diade» (cioè dalla coppia di parole) Giustizia e Libertà che presiede alla sua nascita.
Lo giudica un «ircocervo», una bestia immaginaria, mezza liberale, mezza socialista. Qualcosa da deridere in linea teorica, prima ancora di criticarla nei fatti.

Tra le pagine più intense del libro curato dalla Berti figura, pubblicata in appendice, una lettera di Leo Valiani a Croce. Data: 6 ottobre 1945.
È la testimonianza di un esponente azionista che, di fronte alla requisitoria del grande filosofo contro il suo partito, resiste a «non dirsi crociano».
Valiani rievoca che cosa abbia rappresentato per una generazione di antifascisti «la lettura e la meditazione dei libri di Benedetto Croce, che penetravano nei nostri reclusori di Lucca e di Civitavecchia», accompagnandoci nella «fornace della lotta clandestina e della guerra rivoluzionaria».
Che cos´altro, d´altronde, potevamo, fare noi "quattro gatti giellisti" «se non costituirci in un partito che fosse "d´azione" proprio nel senso che Mazzini» dava a questa parola? E così è sorta quella creatura politica «a Dio spiacente ed ai nemici suoi», che porta in sé la propria condanna. «Se vincono i comunisti ci rimettono in prigione; se vincono i cattolici ci mettono all´indice; se vincono i liberali ci trattano da poveri pazzi. Ma questo è il destino delle eresie. E anche l´amore delle eresie l´abbiamo imparato da Benedetto Croce».

Non si sa come l´abbia presa Croce. Ma se lo scrivere lettere equivale a confessarsi, questa di Valiani - politico sfiduciato, rivoluzionario deluso - è davvero da manuale.
Nello Ajello
(continua a leggere l'articolo...)

sabato 3 gennaio 2009