Non prendiamoci in giro. La nascita del Partito Democratico non sta maturando attraverso una "fusione calda", malgrado le speranze suscitate e che erano sembrate coagularsi in due momenti: i congressi di scioglimento di Ds-Margherita e la presentazione della candidatura Veltroni. Dopo quei passaggi ci si attendeva un rilancio che aprisse subito le porte del costituendo partito a forze sociali fin qui mortificate, a intelligenze creative fin qui messe ai margini, a spiriti liberi pronti a impegnarsi.
La delusione è, per contro, palpabile. Il timore che la perigliosa iniziativa sfuggisse di mano alle due nomenclature di riferimento ha prodotto un macchinario selettivo barocco e antidemocratico. Il suo funzionamento è difficilmente comprensibile, di nessuna attrattiva, dissuasivo nei confronti di ogni desiderio di partecipazione. Lo spezzatino delle liste per circoscrizione, la duplicazione delle medesime (più di una per candidato), la designazione delle candidature ad opera di piccoli gruppi di vertice addetti alla bisogna, il rifiuto di permettere le preferenze, così da controllare e gestire rigidamente l'ordine di ogni lista dei designati, (ricalcando l'aborrita - a parole - legge elettorale vigente): questi gli aspetti salienti del marchingegno messo in piedi.
Ben altro sarebbe stato l'effetto se si fosse votato in tutta Italia per i soli candidati alla leadership (Veltroni, Letta, Bindi, ecc.) attraverso un voto cui partecipassero per internet o per suffragio al seggio tutti i militanti e i simpatizzanti che lo volessero (le tecnologie computerizzate di controllo impediscono ormai le duplicazioni), versando una quota e sottoscrivendo un breve impegno di adesione. L'aver inoltre applicato alla Costituente un federalismo spinto, accompagnando all'elezione del segretario nazionale, quella dei leader regionali, oltre ad aver scatenato in ogni capoluogo una lotta personale asperrima, ha tracciato i binari di un partito localistico, prefigurando una federazione di micropotentati, di feudi di signori delle tessere e dei voti, restii a far propri i valori di una politica nazionale e ancor meno europea. Alla partizione ideologica di partenza si assommerà, così, quella regionalistica.
Tutto questo potrebbe forse non incidere più che tanto se i candidati di maggior rilievo e, in primo luogo, Walter Veltroni riuscissero a svincolarsi dai lacci che lo spirito di conservazione dei partiti d'origine hanno loro imposto e che forse hanno accettato con troppa rassegnazione, subendo oggi le leggi del compromesso, per far meglio domani. Sol che questa non è una fase che consenta una lunga marcia per arrivare a medio termine a secernere sapientemente una nuova classe dirigente, capace in un prossimo futuro non meglio definito, di dirigere il nuovo partito dei riformisti, a vocazione maggioritaria, come ha detto Veltroni e, cioè, in grado di governare, scegliendo maggioranze coerenti.
La fase attuale è, per contro, di rapido e rovinoso smottamento del rapporto di fiducia tra la democrazia rappresentativa e masse crescenti di cittadini, molti dei quali o sfiduciati o preda di ogni ventata demagogica e distruttiva. Potremmo attardarci ad analizzarne le cause, capire quali sono state le realizzazioni sottovalutate e gli errori non perdonati del governo Prodi (il maggiore dei quali, a mio avviso, è stato quello di sostenere ad ogni occasione che l'elettorato è destinato a capire domani, forse fra qualche anno, la giustezza delle cose di cui oggi si lamenta). Potremmo, inoltre, elencare le ancor più gravi pecche in cui sono incorsi i partiti (culminate da ultimo in un impeto suicida nell'apertura delle porte del Festival dell'Unità all'appello squadristico di Beppe Grillo per la distruzione di ogni partito presente e futuro, tranne ovviamente il suo).
Qui ed ora urge, però, ben altro che acute disamine politologiche. Urge prendere atto di una situazione, confermata da tutti i sondaggi (vedi quello di Diamanti del 18 us) e descritta su queste colonne da Eugenio Scalfari con uno dei più drammatici pezzi che abbia mai concepito in tutta la sua vita e di cui sottoscrivo ogni parola ("Il popolo cerca il giudizio universale", Repubblica, 16 us). Aggiungo, però, che se oggi "c'è un crescente rifiuto di questa politica, di questi partiti, di questi uomini politici" e se gli appelli di Beppe Grillo danneggiano solo la sinistra e fanno ben contento Berlusconi "che da 15 anni fa politica in nome dell'antipolitica", ebbene questo desolante quadro è il frutto non di una mutazione antropologica che ha reso il popolo di sinistra refrattario ai valori della politica ma della delusione amarissima per il degrado etico, la pochezza, la litigiosità, l'incoerenza, la presunzione, l'arroganza, la proterva occupazione del suolo pubblico di ogni ordine, grado e qualità a cui una parte notevole dei ceti dirigenti dell'arco governativo si è lasciata andare in questi anni, senza incontrare resistenza e denuncia da parte di chi dissentiva tacendo. Questo ha sovente anche cancellato la percezione della differenza, nell'azione pratica e persino nelle parole, tra destra e sinistra.
Eppur tuttavia c'è ancora una possibilità reale di riscossa. Non è affatto detto che almeno la metà degli italiani, che ha votato centro sinistra nelle ultime elezioni politiche e amministrative, sia perduta per sempre o stia passando armi e bagagli nel campo di Berlusconi e Beppe Grillo, uniti sotto spoglie diverse in un unico disegno. C'è un dato nell'ultimo sondaggio Demos-Eurisko, su cui Ilvo Diamanti si sofferma ("Repubblica" 16 settembre), che indica chiaramente uno spazio di ripresa, laddove afferma: "La candidatura di Walter Veltroni ha smosso le acque stagnanti in cui rischiava di affondare il Pd... Insieme a Fini egli appare ancora il leader politico più amato dagli italiani..... L'elettorato potenziale del Pd è molto più ampio di quello attuale. Le stime oggi gli attribuiscono poco più del 26% dei voti ma la quota di coloro che ritengono possibile votarlo è molto più ampia. Intorno al 44%. La componente dei "democratici indecisi" è costituita in larga misura (40%) da elettori incerti "se" e "per chi" votare... sulla soglia che separa speranza e delusione".
Ecco, dunque, il campo dove Veltroni dovrebbe giocare la sua partita. Con rapidità, spregiudicatezza, coraggio.
Affrontando la questione di fondo che lui non ha fin qui eluso ma non ne ha fatto, certo, il centro della sua campagna: la crisi attuale della politica e la necessità urgente di rifondarne il messaggio. Se quello di Beppe Grillo ha raccolto 300.000 adesioni, l'assai meno urlato Decalogo (mi scuso per la citazione) da me proposto il 24 maggio us su questo giornale ne ha raccolte 150.000.
I nostri lettori, ma credo la stragrande maggioranza degli italiani al di fuori della "casta", volevano e vogliono dei segni concreti di cambiamento:
1) Un governo snello ed efficiente, di 15 ministri, di cui 7 o 8 donne e 45 sottosegretari, non di più;
2) Un taglio drastico dei privilegi e degli stipendi del pletorico ceto che vive sulla politica: più di mille parlamentari, diecine di migliaia di consiglieri regionali, comunali, provinciali, delle comunità montane e quant'altro;
3) Un disboscamento delle migliaia e migliaia di società a partecipazione pubblica, degli assessorati inutili, delle sovvenzioni clientelari;
4) La fine della lottizzazione delle cariche negli enti pubblici, nelle Asl, nei ministeri;
5) L'estromissione dei partiti dalla Rai.
Basterebbe questo per rompere il clima di delusione e rassegnazione, recuperando, quanto meno, incerti e indecisi. Veltroni, certo, potrebbe obbiettare che queste cose non dipendono ancora da lui. E' vero, ma è pur possibile, come ha suggerito Piero Fassino all'ultima Festa dell'Unità, vincolare nel corso della prossima Costituente ad alcune decisioni, regole e norme di comportamento tutti i dirigenti e gli esponenti istituzionali del nuovo Partito, raccogliere e rispondere - è sempre Fassino che parla - "all'indignazione nel vedere il merito, la capacità, la fatica dello studio travolti da concorsi truccati, appalti guidati, assunzioni di favore". Veltroni non può e non deve proporsi affatto di scalzare Prodi. Deve, però, convincersi che nella sua campagna per la leadership del nuovo Partito gioca contemporaneamente una partita futura, di cui oggi gli italiani debbono percepire le caratteristiche essenziali e credibili. Per questo deve dire ora che tipo di governo ha in mente. Deve proporre ora un tavolo Stato-Regioni che riporti i governi locali a dimensioni anche di spesa compatibili con la pubblica decenza. Deve dire ora come vuol mettere fine alla lottizzazione.
Ed, infine, dovrebbe anche aggiornare schemi invecchiati di comunicazione. Ad esempio le cose che ha detto e scritto negli ultimi mesi sono ricche di idee e proposte giuste. Avvolte, però, in articoli troppo lunghi, in discorsi troppo alti ancorché accattivanti, redatti con un linguaggio non sempre adatto a tradursi in un messaggio immediato, secco, comprensibile a tutti. Mi dicono abbia aperto un blog. Ne faccia ampio uso e tramite internet entri in contatto, il più possibile, con quanti non può incontrare direttamente. Lasci perdere le defatiganti mediazioni. Non c'è più il tempo. Si rivolga direttamente alla gente. Gli è ancora possibile farsi ascoltare.
Mario Pirani
La Repubblica, 20 settembre 2007
La delusione è, per contro, palpabile. Il timore che la perigliosa iniziativa sfuggisse di mano alle due nomenclature di riferimento ha prodotto un macchinario selettivo barocco e antidemocratico. Il suo funzionamento è difficilmente comprensibile, di nessuna attrattiva, dissuasivo nei confronti di ogni desiderio di partecipazione. Lo spezzatino delle liste per circoscrizione, la duplicazione delle medesime (più di una per candidato), la designazione delle candidature ad opera di piccoli gruppi di vertice addetti alla bisogna, il rifiuto di permettere le preferenze, così da controllare e gestire rigidamente l'ordine di ogni lista dei designati, (ricalcando l'aborrita - a parole - legge elettorale vigente): questi gli aspetti salienti del marchingegno messo in piedi.
Ben altro sarebbe stato l'effetto se si fosse votato in tutta Italia per i soli candidati alla leadership (Veltroni, Letta, Bindi, ecc.) attraverso un voto cui partecipassero per internet o per suffragio al seggio tutti i militanti e i simpatizzanti che lo volessero (le tecnologie computerizzate di controllo impediscono ormai le duplicazioni), versando una quota e sottoscrivendo un breve impegno di adesione. L'aver inoltre applicato alla Costituente un federalismo spinto, accompagnando all'elezione del segretario nazionale, quella dei leader regionali, oltre ad aver scatenato in ogni capoluogo una lotta personale asperrima, ha tracciato i binari di un partito localistico, prefigurando una federazione di micropotentati, di feudi di signori delle tessere e dei voti, restii a far propri i valori di una politica nazionale e ancor meno europea. Alla partizione ideologica di partenza si assommerà, così, quella regionalistica.
Tutto questo potrebbe forse non incidere più che tanto se i candidati di maggior rilievo e, in primo luogo, Walter Veltroni riuscissero a svincolarsi dai lacci che lo spirito di conservazione dei partiti d'origine hanno loro imposto e che forse hanno accettato con troppa rassegnazione, subendo oggi le leggi del compromesso, per far meglio domani. Sol che questa non è una fase che consenta una lunga marcia per arrivare a medio termine a secernere sapientemente una nuova classe dirigente, capace in un prossimo futuro non meglio definito, di dirigere il nuovo partito dei riformisti, a vocazione maggioritaria, come ha detto Veltroni e, cioè, in grado di governare, scegliendo maggioranze coerenti.
La fase attuale è, per contro, di rapido e rovinoso smottamento del rapporto di fiducia tra la democrazia rappresentativa e masse crescenti di cittadini, molti dei quali o sfiduciati o preda di ogni ventata demagogica e distruttiva. Potremmo attardarci ad analizzarne le cause, capire quali sono state le realizzazioni sottovalutate e gli errori non perdonati del governo Prodi (il maggiore dei quali, a mio avviso, è stato quello di sostenere ad ogni occasione che l'elettorato è destinato a capire domani, forse fra qualche anno, la giustezza delle cose di cui oggi si lamenta). Potremmo, inoltre, elencare le ancor più gravi pecche in cui sono incorsi i partiti (culminate da ultimo in un impeto suicida nell'apertura delle porte del Festival dell'Unità all'appello squadristico di Beppe Grillo per la distruzione di ogni partito presente e futuro, tranne ovviamente il suo).
Qui ed ora urge, però, ben altro che acute disamine politologiche. Urge prendere atto di una situazione, confermata da tutti i sondaggi (vedi quello di Diamanti del 18 us) e descritta su queste colonne da Eugenio Scalfari con uno dei più drammatici pezzi che abbia mai concepito in tutta la sua vita e di cui sottoscrivo ogni parola ("Il popolo cerca il giudizio universale", Repubblica, 16 us). Aggiungo, però, che se oggi "c'è un crescente rifiuto di questa politica, di questi partiti, di questi uomini politici" e se gli appelli di Beppe Grillo danneggiano solo la sinistra e fanno ben contento Berlusconi "che da 15 anni fa politica in nome dell'antipolitica", ebbene questo desolante quadro è il frutto non di una mutazione antropologica che ha reso il popolo di sinistra refrattario ai valori della politica ma della delusione amarissima per il degrado etico, la pochezza, la litigiosità, l'incoerenza, la presunzione, l'arroganza, la proterva occupazione del suolo pubblico di ogni ordine, grado e qualità a cui una parte notevole dei ceti dirigenti dell'arco governativo si è lasciata andare in questi anni, senza incontrare resistenza e denuncia da parte di chi dissentiva tacendo. Questo ha sovente anche cancellato la percezione della differenza, nell'azione pratica e persino nelle parole, tra destra e sinistra.
Eppur tuttavia c'è ancora una possibilità reale di riscossa. Non è affatto detto che almeno la metà degli italiani, che ha votato centro sinistra nelle ultime elezioni politiche e amministrative, sia perduta per sempre o stia passando armi e bagagli nel campo di Berlusconi e Beppe Grillo, uniti sotto spoglie diverse in un unico disegno. C'è un dato nell'ultimo sondaggio Demos-Eurisko, su cui Ilvo Diamanti si sofferma ("Repubblica" 16 settembre), che indica chiaramente uno spazio di ripresa, laddove afferma: "La candidatura di Walter Veltroni ha smosso le acque stagnanti in cui rischiava di affondare il Pd... Insieme a Fini egli appare ancora il leader politico più amato dagli italiani..... L'elettorato potenziale del Pd è molto più ampio di quello attuale. Le stime oggi gli attribuiscono poco più del 26% dei voti ma la quota di coloro che ritengono possibile votarlo è molto più ampia. Intorno al 44%. La componente dei "democratici indecisi" è costituita in larga misura (40%) da elettori incerti "se" e "per chi" votare... sulla soglia che separa speranza e delusione".
Ecco, dunque, il campo dove Veltroni dovrebbe giocare la sua partita. Con rapidità, spregiudicatezza, coraggio.
Affrontando la questione di fondo che lui non ha fin qui eluso ma non ne ha fatto, certo, il centro della sua campagna: la crisi attuale della politica e la necessità urgente di rifondarne il messaggio. Se quello di Beppe Grillo ha raccolto 300.000 adesioni, l'assai meno urlato Decalogo (mi scuso per la citazione) da me proposto il 24 maggio us su questo giornale ne ha raccolte 150.000.
I nostri lettori, ma credo la stragrande maggioranza degli italiani al di fuori della "casta", volevano e vogliono dei segni concreti di cambiamento:
1) Un governo snello ed efficiente, di 15 ministri, di cui 7 o 8 donne e 45 sottosegretari, non di più;
2) Un taglio drastico dei privilegi e degli stipendi del pletorico ceto che vive sulla politica: più di mille parlamentari, diecine di migliaia di consiglieri regionali, comunali, provinciali, delle comunità montane e quant'altro;
3) Un disboscamento delle migliaia e migliaia di società a partecipazione pubblica, degli assessorati inutili, delle sovvenzioni clientelari;
4) La fine della lottizzazione delle cariche negli enti pubblici, nelle Asl, nei ministeri;
5) L'estromissione dei partiti dalla Rai.
Basterebbe questo per rompere il clima di delusione e rassegnazione, recuperando, quanto meno, incerti e indecisi. Veltroni, certo, potrebbe obbiettare che queste cose non dipendono ancora da lui. E' vero, ma è pur possibile, come ha suggerito Piero Fassino all'ultima Festa dell'Unità, vincolare nel corso della prossima Costituente ad alcune decisioni, regole e norme di comportamento tutti i dirigenti e gli esponenti istituzionali del nuovo Partito, raccogliere e rispondere - è sempre Fassino che parla - "all'indignazione nel vedere il merito, la capacità, la fatica dello studio travolti da concorsi truccati, appalti guidati, assunzioni di favore". Veltroni non può e non deve proporsi affatto di scalzare Prodi. Deve, però, convincersi che nella sua campagna per la leadership del nuovo Partito gioca contemporaneamente una partita futura, di cui oggi gli italiani debbono percepire le caratteristiche essenziali e credibili. Per questo deve dire ora che tipo di governo ha in mente. Deve proporre ora un tavolo Stato-Regioni che riporti i governi locali a dimensioni anche di spesa compatibili con la pubblica decenza. Deve dire ora come vuol mettere fine alla lottizzazione.
Ed, infine, dovrebbe anche aggiornare schemi invecchiati di comunicazione. Ad esempio le cose che ha detto e scritto negli ultimi mesi sono ricche di idee e proposte giuste. Avvolte, però, in articoli troppo lunghi, in discorsi troppo alti ancorché accattivanti, redatti con un linguaggio non sempre adatto a tradursi in un messaggio immediato, secco, comprensibile a tutti. Mi dicono abbia aperto un blog. Ne faccia ampio uso e tramite internet entri in contatto, il più possibile, con quanti non può incontrare direttamente. Lasci perdere le defatiganti mediazioni. Non c'è più il tempo. Si rivolga direttamente alla gente. Gli è ancora possibile farsi ascoltare.
Mario Pirani
La Repubblica, 20 settembre 2007
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