La storiografia sulla Repubblica Napoletana del 1799 per lungo tempo è stata influenzata dall’interpretazione crociana; successivamente dalle correnti nazionalistiche e sociali. Ha trovato approdo, infine, in analisi più serene e obiettive, superando le impostazioni e le tentazioni ideologiche per cui la proclamazione di questa non può considerarsi solo un esito della Rivoluzione francese, ma l’effetto di un processo di lunga durata che affondava le radici nel secolo dei lumi e nella vivace vita culturale del Regno di Napoli quando la capitale brillava di vivida luce nell’Europa per merito della scienza e delle teorie riformatrici dei suoi filosofi.
Per tali ragioni, benché essa ebbe a costituirsi con l’intervento dell’armata francese del generale Championnet, tra lo scarso gradimento del Direttorio parigino, la repubblica partenopea rivendicò una propria originalità rispetto alle altre, istituite direttamente dai Francesi, in quanto si rivelò determinante il concorso di un’élite intellettuale, formatasi alla cultura dell’Illuminismo e alla scuola del Vico, del Giannone, del Genovesi, del Delfico, del Galiani, del Filangieri e di altri illustri pensatori.
La storiografia nazionale e internazionale, nell’occuparsi dei “fatti di Napoli del 1799”, ha, infatti, giustamente collegato la formazione dei fautori della Rivoluzione partenopea alle concezioni filosofiche di quel Settecento riformatore, che troverà in Franco Venturi uno dei più grandi e autorevoli studiosi.
Si ritiene che lo storico torinese abbia meditato e approfondito gli studi sull’Illuminismo nella quiete degli anni del confino trascorso in Avigliano, dal 1941 al 1943 allorché,il 26 luglio, il giorno successivo alla caduta del fascismo, si allontanò arbitrariamente dalla sua sede con Manlio Rossi-Doria, suo compagno d’internamento, per entrare nelle file della Resistenza.
L’esistenza del Venturi, fin dalla prima gioventù, è legata alla storia dell’antifascismo, quando, ancora studente, venne arrestato a Torino nel 1933 per attività antifascista. Torna, perciò, opportuno il richiamo ad alcune note biografiche per lumeggiare, con i suoi interessi culturali, anche la sua concezione politica.
Nacque a Roma il 16 maggio 1914 in una famiglia di elevati livelli accademici e, ben presto, si trasferì a Torino che divenne sua patria d’elezione. Il nonno, Adolfo Venturi, era stato il fondatore della moderna storiografia artistica ed occupò la prima cattedra di Storia dell’Arte in Italia, istituita dal ministro della P. I., Emanuele Gianturco. Nominato Senatore del Regno, tenne l’insegnamento universitario a Roma fino al collocamento a riposo. Gli subentrò il figlio Lionello, padre di Franco, che con grande merito continuò l’insegnamento paterno.
Nel 1932 Lionello Venturi, con altri dieci cattedratici, rifiutò il giuramento di fedeltà al regime fascista, lasciò la capitale ed emigrò in Francia, stabilendosi a Parigi, dove continuò i suoi studi e pubblicò opere di grande rilievo sull’Arte moderna, tra cui il monumentale Cézanne (1936) e le preziose Archives de l’impressionnisme.
Il giovane Franco,uscito dal carcere torinese, decise di raggiungere il padre nella capitale francese, appassionandosi alle ricerche storiche e seguendo la scuola di noti Maestri, come D. Mornet, H. Hauser, P. Renouvin, e quella degli intellettuali italiani che tennero vivo l’insegnamento liberale e del socialismo liberale: B. Croce, G. Salvemini, C. Rosselli e A. Garosci...
Nel 1939 pubblicò in francese il saggio La giovinezza di Diderot che, accompagnato dalla scoperta di inediti diderottiani, aprì la strada alla rivalutazione e alla ripresa degli studi intorno alla figura del filosofo francese.
Ebbe assidui contatti con i fuoriusciti italiani dell’antifascismo: Nicola Chiaromonte, Veniero Spinelli, Emilio Lussu, Alberto Cianca, Aldo Garosci e Carlo Levi. Aderì al movimento di «Giustizia e Libertà» e collaborò con Carlo Rosselli.
Alla vigilia della Seconda Guerra Mondiale, nel 1939, il padre si trasferì negli Stati Uniti e invitò il figlio a seguirlo. Franco rimase, invece, a Parigi fino all’ingresso e all’occupazione della capitale da parte delle truppe tedesche.
Internato in un campo di concentramento con altri antifascisti italiani, nel 1940 riuscì ad evadere e a varcare i Pirenei, nel tentativo di raggiungere il neutrale Portogallo e imbarcarsi per gli U.S.A.
Arrestato dai militari franchisti, dopo un anno di reclusione, fu rimpatriato e consegnato al governo italiano che lo confinò a Monteforte Irpino, in provincia di Avellino. Dopo pochi giorni, il 24 maggio del ’41, venne trasferito ad Avigliano, un paese dell’interno di una regione remota, priva di comunicazioni e in grave stato di arretratezza, ritenuta ottimale per isolare e “rieducare” gli avversari del regime fascista.
Trascorse i primi giorni nella Locanda di Domenico Viggiano. Troverà ben presto una sistemazione di suo gradimento in una pigione privata, presso la signora M. Giovanna Lorusso, in via Orlando n. 3, nel centro storico dell’abitato.
Nel silenzio e nella pace del vicolo dove era ubicata l’abitazione, il giovane confinato alternava le sue ore di studio con qualche lezione privata a uno studente del posto, Angelo Verrastro che gli fece conoscere il fratello universitario Vincenzo e altri amici, con i quali strinse rapporti di amicizia. Nella bella stagione effettuava passeggiate e soste nei giardini della villa del Monastero, intrattenendosi nella lettura di un libro. Nelle invernate nevose riprese l’esercizio dello sport preferito, sciando per le pendici del Monte Carmine.
I due anni trascorsi in Basilicata furono più che positivi per lo studioso torinese sia per la possibilità che gli fu concessa di condurre gli amati studi sia per le esperienze e le amicizie che ebbe a maturare in un ambiente aperto, ospitale e non privo di stimoli culturali.
Infatti, accanto ai numerosi internati in Avigliano per motivi politici e razziali, presto farà la conoscenza di Manlio Rossi-Doria, quando, lo studioso di Scienze Agrarie venne qui trasferito da Melfi con la sua famiglia, nel maggio 1942.
Tra i due andrà a stabilirsi un forte sodalizio, agevolato non soltanto dalla comune condizione di antifascisti, bensì dalle affinità delle idee politiche, essendo anche il Rossi-Doria aderente al movimento di «Giustizia e Libertà».
Il professore di Agraria, maggiore di età e con più vasta esperienza politica del giovane Venturi, oltre che conoscitore della Basilicata, era in stretto contatto con gli esponenti dell’antifascismo in clandestinità.
Con il pretesto del ricorso a un odontoiatra per curare le carie dentarie, a volte insieme, altre, individualmente, i due confinati riuscivano a recarsi a Potenza, e nei posti convenuti incontravano i messaggeri del movimento clandestino di opposizione al regime.
Erano allora in corso le discussioni sul federalismo europeo. Gli scambi epistolari e i contatti del prof. Rossi-Doria con Ugo La Malfa e Lelio Bassi venivano assicurati da elementi di sesso femminile, per non destare sospetti.
In modo particolare, da Ursula, la moglie di Eugenio Colorni, ebreo antifascista confinato a Melfi che, talvolta, partecipava agli incontri potentini con i due internati di Avigliano, e da Ada Rossi. Erano queste i due “fenicotteri”, un eufemismo adoperato dall’economista agrario per indicare i corrieri che curavano la consegna della corrispondenza.
Così trascorreva la vita del Venturi ad Avigliano, in un clima sereno, tra prudenti scambi di vedute e ipotesi di progetti, nell’ospitale abitazione dell’amico antifascista. Nell’inverno del 1942-43, Rossi-Doria aderì al clandestino Partito d’Azione.
Alle loro discussioni, spesso, erano presenti, sfidando il pericolo di una denuncia, anche i giovani amici aviglianesi, di fronte ai quali s’aprivano prospettive politiche prima del tutto ignote.
Grazie alla solidarietà di questi giovani, degli artigiani e dei lavoratori anziani, socialisti di antica data, assai vicini ai due confinati, essi potettero superare le difficoltà che erano insorte a causa della rarefazione dei viveri razionati di prima necessità, allorché gli eventi bellici precipitarono e le autorità cittadine non riuscivano più ad approvvigionare con regolarità i negozi alimentari.
Per questa discreta “cortina protettiva” i due confinati riuscirono a sopravvivere e a continuare le ricerche e gli studi che conducevano: il Venturi sull’Illuminismo italiano ed europeo e il prof. Rossi-Doria sulla riforma dell’agricoltura meridionale.
La loro fuga fu favorita da un cugino del Venturi, agronomo in un’azienda del Tavoliere della Puglia, che venne a rilevarli con una macchina e a trasferirli a Roma in casa Comandini, in via Flaminia, dove si alternavano le riunioni del Partito d’Azione con quelle degli altri antifascisti, e con Picardi, ministro del governo Badoglio, succeduto a Benito Mussolini. Entrati nella clandestinità, i due amici antifascisti, poco dopo, si separeranno.
Il Venturi ritornato a Torino, prese parte attiva alla Resistenza, fondando il quotidiano “Giustizia e Libertà”, organo del Partito d’Azione, e redigendo stampati e messaggi che venivano distribuiti ai partigiani impegnati nella lotta contro i fascisti della Repubblica di Salò e i militari tedeschi.
Con la fine della guerra, Franco Venturi tornerà a pieno tempo ai diletti studi, relegando le esperienze politiche vissute e la memoria del suo soggiorno ad Avigliano tra i ricordi più significativi della sua vita.
Nel 1945 conseguì una laurea alla Sorbona, discutendo la tesi sul riformatore piemontese F. Dalmazzo Vasco. Nel 1946 pubblicò Le origini dell’Enciclopedia, nel 1947 un libro su N. A. Boulanger, e nel 1948 il saggio Jean Jaurés e altri storici della rivoluzione francese.
Nel corso del 1948 si trasferì a Mosca come addetto culturale dell’Ambasciata italiana e si dedicò a studiare l’Ottocento russo. Poi, nel 1952 dette alle stampe il volume Il populismo russo.
Rientrato in Italia abbracciò la carriera accademica, occupando la cattedra di Storia medioevale e moderna all’Università di Cagliari, indi si trasferì a quella di Genova, e, infine, fu ordinario di Storia moderna a Torino, dedicandosi in modo sistematico agli studi avviati in passato sull’Illuminismo e sui moti riformatori in Italia e in Europa.
Nel 1984 fu nominato socio dell’Accademia dei Lincei. Dal 1959 sino al 1994, anno della sua scomparsa, ha ricoperto l’incarico di direttore della “Rivista storica italiana”.
Tra le tante sue opere, è da ricordare il Settecento riformatore, in cinque volumi e sette tomi, editi dalla Einaudi di Torino dal 1969 al 1990.
Alla cultura del Mezzogiorno dedicò il volume I riformatori napoletani, nell’edizione Riccardo Ricciardi, Milano-Napoli, 1962, nel quale, indagando sul Settecento meridionale, mise in luce il movimento innovativo dei nostri filosofi, in una visione che andava oltre il Regno di Napoli e si rispecchiava nei tratti più avanzati e significativi della stessa cultura europea.
Nel 1996 l’Editrice Einaudi ha pubblicato La lotta per la libertà, una raccolta postuma degli scritti politici giovanili di Franco Venturi, in cui, degno di menzione è un saggio risalente al 1943 nel quale l’Autore lamenta come, dopo il 25 luglio, con la caduta del fascismo, le forze politiche antifasciste furono alquanto emarginate dai governi conservatori in carica, sia pure provvisori, che non consentirono subito una svolta per rivoluzionare il vecchio Stato. A guerra finita, andò, invece, a consolidarsi un clima di restaurazione. Ciò rappresentò - a suo dire - per la forze democratiche un’occasione perduta.
Lo studioso torinese, rammentando, infatti, il ciclone bellico che aveva sconvolto il vecchio Continente, concludeva il suo saggio con queste profetiche parole:
«Nessuno degli Stati europei ha resistito in questa bufera; hanno resistito e trionfato grandi agglomerati e imperi come la Russia e l’Inghilterra, ma nessun altro ha retto: né Germania né Francia né Polonia, né Iugoslavia. Lo Stato italiano non avrà il meschino privilegio degno di Franco, (Francisco Franco, il caudillo della Spagna - n.d.r.) di sopravvivere anche soltanto un giorno alla fine della tragedia. Anche noi se rinasceremo, rinasceremo in Europa. E’ giusto che fosse così».
Franco Venturi aveva intravisto fin dal 1943 la “morte della patria” e i rigurgiti dei localismi che si manifestano oggi. Ci consola, però, che il suo auspicio si stia avverando e che, presto, andremo a realizzare un’Europa, non solo economicamente, ancorché politicamente integrata.
Intanto, si pone l’interrogativo, se non sia il caso che la nostra comunità, nel ricordo dell’ospitalità e della generosità espressa a tutti i confinati politici e agli internati dal regime fascista, non si debba manifestare un segno tangibile per eternare la memoria di quanti soffrirono per gli ideali di libertà, in particolare per Franco Venturi, uno dei più grandi storici del Novecento, e per Manlio Rossi-Doria, illustre economista e meridionalista, verso il quale si nutrono anche debiti di riconoscenza per l’opera svolta, in seguito, a favore di Avigliano e delle nostre popolazioni rurali.
Gennaro Claps
Nota
Per una più esauriente cronaca del confino di Franco Venturi e Manlio Rossi-Doria in Basilicata si suggerisce la lettura del fortunato volumetto, edito nel 2005 da Gennaro Claps: «Avigliano - Terra di confino - Memorie e testimonianze», Pisani Editore, Avigliano (PZ) da cui è tratta l'immagine pubblicata, che ritrae Franco Venturi durante il confino in Avigliano.
Per tali ragioni, benché essa ebbe a costituirsi con l’intervento dell’armata francese del generale Championnet, tra lo scarso gradimento del Direttorio parigino, la repubblica partenopea rivendicò una propria originalità rispetto alle altre, istituite direttamente dai Francesi, in quanto si rivelò determinante il concorso di un’élite intellettuale, formatasi alla cultura dell’Illuminismo e alla scuola del Vico, del Giannone, del Genovesi, del Delfico, del Galiani, del Filangieri e di altri illustri pensatori.
La storiografia nazionale e internazionale, nell’occuparsi dei “fatti di Napoli del 1799”, ha, infatti, giustamente collegato la formazione dei fautori della Rivoluzione partenopea alle concezioni filosofiche di quel Settecento riformatore, che troverà in Franco Venturi uno dei più grandi e autorevoli studiosi.
Si ritiene che lo storico torinese abbia meditato e approfondito gli studi sull’Illuminismo nella quiete degli anni del confino trascorso in Avigliano, dal 1941 al 1943 allorché,il 26 luglio, il giorno successivo alla caduta del fascismo, si allontanò arbitrariamente dalla sua sede con Manlio Rossi-Doria, suo compagno d’internamento, per entrare nelle file della Resistenza.
L’esistenza del Venturi, fin dalla prima gioventù, è legata alla storia dell’antifascismo, quando, ancora studente, venne arrestato a Torino nel 1933 per attività antifascista. Torna, perciò, opportuno il richiamo ad alcune note biografiche per lumeggiare, con i suoi interessi culturali, anche la sua concezione politica.
Nacque a Roma il 16 maggio 1914 in una famiglia di elevati livelli accademici e, ben presto, si trasferì a Torino che divenne sua patria d’elezione. Il nonno, Adolfo Venturi, era stato il fondatore della moderna storiografia artistica ed occupò la prima cattedra di Storia dell’Arte in Italia, istituita dal ministro della P. I., Emanuele Gianturco. Nominato Senatore del Regno, tenne l’insegnamento universitario a Roma fino al collocamento a riposo. Gli subentrò il figlio Lionello, padre di Franco, che con grande merito continuò l’insegnamento paterno.
Nel 1932 Lionello Venturi, con altri dieci cattedratici, rifiutò il giuramento di fedeltà al regime fascista, lasciò la capitale ed emigrò in Francia, stabilendosi a Parigi, dove continuò i suoi studi e pubblicò opere di grande rilievo sull’Arte moderna, tra cui il monumentale Cézanne (1936) e le preziose Archives de l’impressionnisme.
Il giovane Franco,uscito dal carcere torinese, decise di raggiungere il padre nella capitale francese, appassionandosi alle ricerche storiche e seguendo la scuola di noti Maestri, come D. Mornet, H. Hauser, P. Renouvin, e quella degli intellettuali italiani che tennero vivo l’insegnamento liberale e del socialismo liberale: B. Croce, G. Salvemini, C. Rosselli e A. Garosci...
Nel 1939 pubblicò in francese il saggio La giovinezza di Diderot che, accompagnato dalla scoperta di inediti diderottiani, aprì la strada alla rivalutazione e alla ripresa degli studi intorno alla figura del filosofo francese.
Ebbe assidui contatti con i fuoriusciti italiani dell’antifascismo: Nicola Chiaromonte, Veniero Spinelli, Emilio Lussu, Alberto Cianca, Aldo Garosci e Carlo Levi. Aderì al movimento di «Giustizia e Libertà» e collaborò con Carlo Rosselli.
Alla vigilia della Seconda Guerra Mondiale, nel 1939, il padre si trasferì negli Stati Uniti e invitò il figlio a seguirlo. Franco rimase, invece, a Parigi fino all’ingresso e all’occupazione della capitale da parte delle truppe tedesche.
Internato in un campo di concentramento con altri antifascisti italiani, nel 1940 riuscì ad evadere e a varcare i Pirenei, nel tentativo di raggiungere il neutrale Portogallo e imbarcarsi per gli U.S.A.
Arrestato dai militari franchisti, dopo un anno di reclusione, fu rimpatriato e consegnato al governo italiano che lo confinò a Monteforte Irpino, in provincia di Avellino. Dopo pochi giorni, il 24 maggio del ’41, venne trasferito ad Avigliano, un paese dell’interno di una regione remota, priva di comunicazioni e in grave stato di arretratezza, ritenuta ottimale per isolare e “rieducare” gli avversari del regime fascista.
Trascorse i primi giorni nella Locanda di Domenico Viggiano. Troverà ben presto una sistemazione di suo gradimento in una pigione privata, presso la signora M. Giovanna Lorusso, in via Orlando n. 3, nel centro storico dell’abitato.
Nel silenzio e nella pace del vicolo dove era ubicata l’abitazione, il giovane confinato alternava le sue ore di studio con qualche lezione privata a uno studente del posto, Angelo Verrastro che gli fece conoscere il fratello universitario Vincenzo e altri amici, con i quali strinse rapporti di amicizia. Nella bella stagione effettuava passeggiate e soste nei giardini della villa del Monastero, intrattenendosi nella lettura di un libro. Nelle invernate nevose riprese l’esercizio dello sport preferito, sciando per le pendici del Monte Carmine.
I due anni trascorsi in Basilicata furono più che positivi per lo studioso torinese sia per la possibilità che gli fu concessa di condurre gli amati studi sia per le esperienze e le amicizie che ebbe a maturare in un ambiente aperto, ospitale e non privo di stimoli culturali.
Infatti, accanto ai numerosi internati in Avigliano per motivi politici e razziali, presto farà la conoscenza di Manlio Rossi-Doria, quando, lo studioso di Scienze Agrarie venne qui trasferito da Melfi con la sua famiglia, nel maggio 1942.
Tra i due andrà a stabilirsi un forte sodalizio, agevolato non soltanto dalla comune condizione di antifascisti, bensì dalle affinità delle idee politiche, essendo anche il Rossi-Doria aderente al movimento di «Giustizia e Libertà».
Il professore di Agraria, maggiore di età e con più vasta esperienza politica del giovane Venturi, oltre che conoscitore della Basilicata, era in stretto contatto con gli esponenti dell’antifascismo in clandestinità.
Con il pretesto del ricorso a un odontoiatra per curare le carie dentarie, a volte insieme, altre, individualmente, i due confinati riuscivano a recarsi a Potenza, e nei posti convenuti incontravano i messaggeri del movimento clandestino di opposizione al regime.
Erano allora in corso le discussioni sul federalismo europeo. Gli scambi epistolari e i contatti del prof. Rossi-Doria con Ugo La Malfa e Lelio Bassi venivano assicurati da elementi di sesso femminile, per non destare sospetti.
In modo particolare, da Ursula, la moglie di Eugenio Colorni, ebreo antifascista confinato a Melfi che, talvolta, partecipava agli incontri potentini con i due internati di Avigliano, e da Ada Rossi. Erano queste i due “fenicotteri”, un eufemismo adoperato dall’economista agrario per indicare i corrieri che curavano la consegna della corrispondenza.
Così trascorreva la vita del Venturi ad Avigliano, in un clima sereno, tra prudenti scambi di vedute e ipotesi di progetti, nell’ospitale abitazione dell’amico antifascista. Nell’inverno del 1942-43, Rossi-Doria aderì al clandestino Partito d’Azione.
Alle loro discussioni, spesso, erano presenti, sfidando il pericolo di una denuncia, anche i giovani amici aviglianesi, di fronte ai quali s’aprivano prospettive politiche prima del tutto ignote.
Grazie alla solidarietà di questi giovani, degli artigiani e dei lavoratori anziani, socialisti di antica data, assai vicini ai due confinati, essi potettero superare le difficoltà che erano insorte a causa della rarefazione dei viveri razionati di prima necessità, allorché gli eventi bellici precipitarono e le autorità cittadine non riuscivano più ad approvvigionare con regolarità i negozi alimentari.
Per questa discreta “cortina protettiva” i due confinati riuscirono a sopravvivere e a continuare le ricerche e gli studi che conducevano: il Venturi sull’Illuminismo italiano ed europeo e il prof. Rossi-Doria sulla riforma dell’agricoltura meridionale.
La loro fuga fu favorita da un cugino del Venturi, agronomo in un’azienda del Tavoliere della Puglia, che venne a rilevarli con una macchina e a trasferirli a Roma in casa Comandini, in via Flaminia, dove si alternavano le riunioni del Partito d’Azione con quelle degli altri antifascisti, e con Picardi, ministro del governo Badoglio, succeduto a Benito Mussolini. Entrati nella clandestinità, i due amici antifascisti, poco dopo, si separeranno.
Il Venturi ritornato a Torino, prese parte attiva alla Resistenza, fondando il quotidiano “Giustizia e Libertà”, organo del Partito d’Azione, e redigendo stampati e messaggi che venivano distribuiti ai partigiani impegnati nella lotta contro i fascisti della Repubblica di Salò e i militari tedeschi.
Con la fine della guerra, Franco Venturi tornerà a pieno tempo ai diletti studi, relegando le esperienze politiche vissute e la memoria del suo soggiorno ad Avigliano tra i ricordi più significativi della sua vita.
Nel 1945 conseguì una laurea alla Sorbona, discutendo la tesi sul riformatore piemontese F. Dalmazzo Vasco. Nel 1946 pubblicò Le origini dell’Enciclopedia, nel 1947 un libro su N. A. Boulanger, e nel 1948 il saggio Jean Jaurés e altri storici della rivoluzione francese.
Nel corso del 1948 si trasferì a Mosca come addetto culturale dell’Ambasciata italiana e si dedicò a studiare l’Ottocento russo. Poi, nel 1952 dette alle stampe il volume Il populismo russo.
Rientrato in Italia abbracciò la carriera accademica, occupando la cattedra di Storia medioevale e moderna all’Università di Cagliari, indi si trasferì a quella di Genova, e, infine, fu ordinario di Storia moderna a Torino, dedicandosi in modo sistematico agli studi avviati in passato sull’Illuminismo e sui moti riformatori in Italia e in Europa.
Nel 1984 fu nominato socio dell’Accademia dei Lincei. Dal 1959 sino al 1994, anno della sua scomparsa, ha ricoperto l’incarico di direttore della “Rivista storica italiana”.
Tra le tante sue opere, è da ricordare il Settecento riformatore, in cinque volumi e sette tomi, editi dalla Einaudi di Torino dal 1969 al 1990.
Alla cultura del Mezzogiorno dedicò il volume I riformatori napoletani, nell’edizione Riccardo Ricciardi, Milano-Napoli, 1962, nel quale, indagando sul Settecento meridionale, mise in luce il movimento innovativo dei nostri filosofi, in una visione che andava oltre il Regno di Napoli e si rispecchiava nei tratti più avanzati e significativi della stessa cultura europea.
Nel 1996 l’Editrice Einaudi ha pubblicato La lotta per la libertà, una raccolta postuma degli scritti politici giovanili di Franco Venturi, in cui, degno di menzione è un saggio risalente al 1943 nel quale l’Autore lamenta come, dopo il 25 luglio, con la caduta del fascismo, le forze politiche antifasciste furono alquanto emarginate dai governi conservatori in carica, sia pure provvisori, che non consentirono subito una svolta per rivoluzionare il vecchio Stato. A guerra finita, andò, invece, a consolidarsi un clima di restaurazione. Ciò rappresentò - a suo dire - per la forze democratiche un’occasione perduta.
Lo studioso torinese, rammentando, infatti, il ciclone bellico che aveva sconvolto il vecchio Continente, concludeva il suo saggio con queste profetiche parole:
«Nessuno degli Stati europei ha resistito in questa bufera; hanno resistito e trionfato grandi agglomerati e imperi come la Russia e l’Inghilterra, ma nessun altro ha retto: né Germania né Francia né Polonia, né Iugoslavia. Lo Stato italiano non avrà il meschino privilegio degno di Franco, (Francisco Franco, il caudillo della Spagna - n.d.r.) di sopravvivere anche soltanto un giorno alla fine della tragedia. Anche noi se rinasceremo, rinasceremo in Europa. E’ giusto che fosse così».
Franco Venturi aveva intravisto fin dal 1943 la “morte della patria” e i rigurgiti dei localismi che si manifestano oggi. Ci consola, però, che il suo auspicio si stia avverando e che, presto, andremo a realizzare un’Europa, non solo economicamente, ancorché politicamente integrata.
Intanto, si pone l’interrogativo, se non sia il caso che la nostra comunità, nel ricordo dell’ospitalità e della generosità espressa a tutti i confinati politici e agli internati dal regime fascista, non si debba manifestare un segno tangibile per eternare la memoria di quanti soffrirono per gli ideali di libertà, in particolare per Franco Venturi, uno dei più grandi storici del Novecento, e per Manlio Rossi-Doria, illustre economista e meridionalista, verso il quale si nutrono anche debiti di riconoscenza per l’opera svolta, in seguito, a favore di Avigliano e delle nostre popolazioni rurali.
Gennaro Claps
Nota
Per una più esauriente cronaca del confino di Franco Venturi e Manlio Rossi-Doria in Basilicata si suggerisce la lettura del fortunato volumetto, edito nel 2005 da Gennaro Claps: «Avigliano - Terra di confino - Memorie e testimonianze», Pisani Editore, Avigliano (PZ) da cui è tratta l'immagine pubblicata, che ritrae Franco Venturi durante il confino in Avigliano.
1 commento:
Cari amici dell'Associazione,
ringrazio tutti per gli auguri formulati per il mio 80° genetliaco e spero di poter offrire ulteriori contributi storici e letterari per la migliore conoscenza della comunità, quella aviglianese, che merita miglior fortuna.
Gennaro Claps
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