- il primo (in mattinata) con le scuole, durante il quale - con il contributo della dott.ssa Valeria Verrastro (Archivio di Stato di Potenza) e del prof. Antonello Venturi - si ripercorreranno le tappe della discriminazione razziale e del confino;
- il secondo, alla sera, con un convegno al quale parteciperanno la prof.ssa Silvia Berti (autrice di una recentissima pubblicazione riguardante un inedito carteggio tra Franco Venturi e Benedetto Croce), il prof. Antonello Venturi (figlio dell'eminente intellettuale), una introduzione di Gennaro Claps (prezioso studioso locale), e con l'amichevole contributo di Elvi Argento.
Di seguito, l'articolo di Nello Ajello pubblicato su La Repubblica del 12.01.2009, riguardante il rapporto epistolare tra Croce e Venturi pubblicato da Silvia Berti.
Croce e Venturi. La libertà perduta
«Senatore e caro Maestro», «Carissimo giovane amico».
Il primo è il settantunenne Benedetto Croce. L´altro è Franco Venturi, ventitré anni, destinato a diventare il maggiore studioso italiano dell´Illuminismo. Scambiandosi quegli appellativi, essi danno inizio nel 1937 a un denso rapporto epistolare - quaranta lettere in totale - che si prolungherà fino al 1950.
In massima parte inedita, la corrispondenza esce a giorni presso il Mulino, a cura di Silvia Berti, in un volume intitolato Carteggio Croce - F. Venturi (pagg. 150, euro 20).
Fra i due esistono rapporti consolidati.
Franco appartiene a una famiglia di illustri tradizioni intellettuali.
Suo nonno, Adolfo Venturi, è stato una figura dominante della critica d´arte a cavallo fra Otto e Novecento; attività ereditata, con una più deliberata apertura agli stimoli della modernità, dal figlio Lionello, padre di Franco.
Nel 1931, Lionello s´era rifiutato di sottoscrivere il giuramento di fedeltà al regime fascista imposto da Gentile ai docenti italiani.
Dal marzo del ´32 l´intera famiglia Venturi s´era stabilita a Parigi. Alla mancata firma sotto l´editto gentiliano s´era aggiunto il coinvolgimento del giovane Franco in quell´ondata giudiziaria che, fra arresti e sospetti, aveva di recente colpito il gruppo antifascista torinese di Giustizia e Libertà.
Come già a Torino, anche nella capitale francese, Croce incontrava i Venturi: una consuetudine che, nata con un marchio intellettuale, si nutriva di umori politici.
Quest´ultima dimensione, insita nei rapporti tra il giovane e l´anziano, resta però sottintesa nelle lettere che essi si scambiano.
Sono, entrambi, sorvegliati speciali. Il filosofo, la cui abitazione napoletana era stata invasa, nell´ottobre del ´26, da una squadraccia fascista, alludeva all´episodio dichiarando di aver «avuto l´onore di ricevere una visita dello Stato Etico».
Quanto a Franco Venturi, il suo nome figurava nell´elenco degli antifascisti da perseguire. A dispetto di ogni cautela usata dai corrispondenti, le loro lettere vengono registrate negli archivi della Polizia.
Come ha sottolineato Silvia Berti nella diffusa introduzione al volume, il cuore di questo dialogo epistolare «sono i libri o, in più d´un caso, l´assenza di libri». Venturi intrattiene Croce sui propri studi e progetti: una ricerca sull´illuminismo piemontese, poi l´abbozzo di un saggio dedicato a Filippo Buonarroti; e via via altri temi che il giovane storico ha già saggiato, da Diderot a una più generale disamina dell´illuminismo francese, da Tommaso Campanella a N. A. Boulanger, da Hegel «storico dell´illuminismo» a un esame della cultura del Settecento nell´intero continente: «Vedo di fronte a me come una meta lontana e in un certo senso ideale», egli specifica, «una storia europea del secolo dei lumi».
Croce incoraggia l´amico. Consente con alcune delle sue diagnosi.
Lo aiuta nel procurarsi i libri. I libri, appunto, come ricerca. Poi, ben presto, come assenza e rimpianto.
Al quasi dorato esilio parigino, nella vita di Franco Venturi subentra infatti una nuova fase. Nella corrispondenza con Croce ne risuona un´eco desolata. Arrestato a Port Bou dalla polizia franchista nell´ottobre del 1940, mentre cercava di raggiungere Lisbona per poi imbarcarsi per gli Stati Uniti dove la famiglia si era intanto trasferita, Venturi sperimenta per cinque mesi la severità delle carceri spagnole. Prima a Figueras, poi a Madrid e Barcellona. Estradato in Italia, lo custodiscono in carcere a Genova e Torino, finendo con l´assegnarlo al confino. Destinazione: Monteforte Irpino. È il maggio del ´41. Franco si sente così trasformare - e ne scrive al «caro Maestro» - in «un prigioniero che ha visto interrotto il suo lavoro in cui metteva tutta la sua passione e la sua anima».
Ad Avigliano (Potenza) dove viene trasferito grazie all´intervento del nonno Adolfo presso qualche residuo amico autorevole, va meglio, ma solo un po´. Croce continua a scrivergli. «Soffro per Lei perché so quale spasimo sia non poter avere a mano gli strumenti necessarii ai nostri dubbi e alle nostre ricerche!». E aggiunge: «Se posso esserle utile, mi adoperi».
Ma ecco che vien meno anche il soccorso epistolare. Agli internati, adesso, è consentito di scrivere solo ai familiari: una lettera per settimana, lunga non più di ventiquattro righe. La corrispondenza con Croce prima si dirada, poi tace. Per quattro anni: dal ´42 al ´46.
Dopo la caduta del fascismo, per Venturi s´è aperta una stagione di lotta politica. Egli lavora alla stampa clandestina di Giustizia e Libertà, s´impegna nella Resistenza.
Anche il suo essere crociano subisce l´influenza di nuove idee e pulsioni. Si manifestano, sul pensiero del «caro Maestro», delle riserve che la comune avversione al fascismo aveva mimetizzato.
Sono sfumature che non sfuggono a una studiosa attenta come la curatrice Berti: su più d´un argomento trattato nelle lettere, le pare di avvertire uno scarto di sensibilità fra l´approccio più freddo, prevalentemente filosofico-letterario di Croce e quello passionale e deliberatamente «democratico» di Venturi. Un solo esempio: nell´entusiasmo professato dal giovane studioso per l´illuminismo piemontese la curatrice vede profilarsi l´ombra di Gobetti, non del tutto gradita al filosofo.
La novità, a fascismo appena caduto, è l´idiosincrasia di Croce per Giustizia e Libertà (e per il partito d´Azione che ne è l´erede). L´argomento trascende l´epistolario: lì non se ne parla, anche se altrove Venturi non risparmia a Croce critiche pesanti. E si spiega. Quell´idiosincrasia angustia, in particolare, quegli intellettuali borghesi (fra i quali proprio Venturi) nella cui formazione politico-culturale il direttore della Critica era assurto a simbolo di spirito critico e dignità civile. Il dialogo diretto fra Croce e Venturi diventa, nell´ultima sua fase meno umanamente drammatico, più tecnico, tale da schivare temi scottanti. Ma, fuori, nella società politica, la discussione sul tema del P. d´A. è così aspra e tenace da riflettersi nei rapporti fra Croce e il suo discepolo prediletto, Adolfo Omodeo. Vi si trova coinvolta perfino la cerchia familiare del Senatore: è un fervente «azionista» suo genero, Raimondo Craveri, marito della figlia Elena. Per Croce il partito di Parri e di Lussu è un bersaglio fisso. Lo considera una costruzione insensata, a partire dalla «diade» (cioè dalla coppia di parole) Giustizia e Libertà che presiede alla sua nascita.
Lo giudica un «ircocervo», una bestia immaginaria, mezza liberale, mezza socialista. Qualcosa da deridere in linea teorica, prima ancora di criticarla nei fatti.
Tra le pagine più intense del libro curato dalla Berti figura, pubblicata in appendice, una lettera di Leo Valiani a Croce. Data: 6 ottobre 1945.
È la testimonianza di un esponente azionista che, di fronte alla requisitoria del grande filosofo contro il suo partito, resiste a «non dirsi crociano».
Valiani rievoca che cosa abbia rappresentato per una generazione di antifascisti «la lettura e la meditazione dei libri di Benedetto Croce, che penetravano nei nostri reclusori di Lucca e di Civitavecchia», accompagnandoci nella «fornace della lotta clandestina e della guerra rivoluzionaria».
Che cos´altro, d´altronde, potevamo, fare noi "quattro gatti giellisti" «se non costituirci in un partito che fosse "d´azione" proprio nel senso che Mazzini» dava a questa parola? E così è sorta quella creatura politica «a Dio spiacente ed ai nemici suoi», che porta in sé la propria condanna. «Se vincono i comunisti ci rimettono in prigione; se vincono i cattolici ci mettono all´indice; se vincono i liberali ci trattano da poveri pazzi. Ma questo è il destino delle eresie. E anche l´amore delle eresie l´abbiamo imparato da Benedetto Croce».
Non si sa come l´abbia presa Croce. Ma se lo scrivere lettere equivale a confessarsi, questa di Valiani - politico sfiduciato, rivoluzionario deluso - è davvero da manuale.
Nello Ajello
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