Le difficoltà dell’una sono le difficoltà dell’altra.
Sulla crisi della democrazia, non mi pare che ci sia molto da dire, in più di quel che sappiamo. Se non bastasse la realtà di cui tutti facciamo esperienza nei piccoli e grandi rapporti di vita quotidiana – prima ancora che nella vita delle istituzioni -, ci sono studi ponderosi che parlano della democrazia odierna nella luce spettrale di un “totalitarismo capovolto”.
Si elaborano griglie concettuali per “misurare” le democrazie esistenti, e ciò meno per rilevare progressi, e più per attestare regressi verso il punto-zero al di là del quale, di democratico, resta la forma ma non la sostanza.
Ritornano antiche immagini biologiche delle società, paragonate ai corpi naturali viventi che, come nascono, sono destinati a morire.
Nulla, nelle opere degli uomini è eterno e così, oggi, quest’idea del ciclo vitale si applica alla democrazia.
La caduta dei totalitarismi del secolo scorso sembrava avere aperto l’èra della vittoria della democrazia su ogni altra forma di governo degli uomini.
Dalla seconda metà del secolo XX, si cominciò a mettere tutte le concezioni e le azioni politiche in rapporto con la democrazia, diventata quasi un concetto idolatrico comprensivo di tutte le cose buone e belle riguardanti gli Stati e le società, in tutte le loro articolazioni, dalla famiglia, al partito, al sindacato, alle Chiese, alla comunità internazionale.
Questa connotazione positiva era un rovesciamento di antiche convinzioni.
Fino allora, la democrazia era stata associata all’idea della massa senza valore, egoista, arrogante, faziosa, instabile e perciò facile preda dei demagoghi.
Il giudizio negativo di Platone fece scuola nei secoli: la democrazia come regime in cui il popolo ama adularsi, piuttosto che educarsi: «un tal governo non si dà alcun pensiero di quegli studi a cui bisogna attendere per prepararsi alla vita politica, ma onora chiunque, per poco che si professi amico del popolo».
Oggi, nel senso comune, non c’è un ri-rovesciamento a favore di concezioni antidemocratiche.
C’è piuttosto un accantonamento, un fastidio diffuso, un “lasciatemi in pace” con riguardo ai discorsi democratici che, sulla bocca dei potenti, per lo più puzzano di ideologia al servizio della forza e, nelle parole dei deboli, spesso suonano come vuote illusioni.
Non c’è bisogno di consultare la scienza politica per incontrare sempre più frequentemente una semplice domanda - «democrazia: perché?» -, una domanda che, solo a formularla, suona come espressione del disincantamento a-democratico del tempo presente e mostra tuttavia l’oblio di una durissima verità: che, salve le differenze esteriori, prima della democrazia c’è stata una dittatura e, dopo, ce ne sarà un’altra.
Che bisogno c’è oggi, in effetti, di democrazia?
Con questa domanda, ci spostiamo dalla parte della “società civile”.
È lì la sua sede, il luogo della sua forza o della sua debolezza.
Nel senso in cui se ne parla correntemente oggi, la società civile è il luogo delle energie sociali che esprimono bisogni, attese, progetti, ideali collettivi, perfino “visioni del mondo”, che chiedono di manifestarsi e trasformarsi in politica.
Chiedono di prendere parte alla vita politica e di esprimersi nelle istituzioni: chiedono cioè democrazia.
Se la società si spegne, cioè si ripiega su se stessa e sulle sue divisioni corporative, essa diviene incapace di idee generali, propriamente politiche, e il suo orizzonte si riduce allo status quo da preservare, o alle tante posizioni particolari ch’essa contiene – privilegi grandi e piccoli, interessi corporativi, rendite di posizione - da tutelare.
Basta allora l’amministrazione dell’esistente; cioè la tenuta dell’insieme e la tutela dell’ordine pubblico: in altre parole, la garanzia dei rapporti sociali de facto.
Di fronte a una società politicamente inerte può ergersi soltanto lo Stato amministrativo che si preoccupa di sopravvivenza, non di vita; di semplice, ripetitiva e, alla lunga, insopportabile riproduzione sociale.
Ma, se questo – la sopravvivenza - è il mandato dei governati ai governanti, ciò che occorre è soltanto un potere esecutivo forte e un apparato pubblico almeno minimamente efficiente.
Non c’è bisogno di politica e, con la politica, scompare anche la democrazia.
Infatti, mentre ci può essere politica senza democrazia, non ci può essere democrazia senza politica.
Non avendo nulla di nostro che vogliamo realizzare, tanto vale consegnarci nelle mani di un qualche manovratore e, per un po’, non pensarci più.
Con queste considerazioni, si spiega l’orientamento che a poco a poco prende piede, a favore di un ri-disegno dei rapporti tra i poteri costituzionali, con l’esecutivo predominante sugli altri.
L’investitura popolare diretta del capo, depositario d’un potere tutelare illimitato, contrariamente all’apparenza di parole d’ordine come innovazione, trasformazione, riforme, decisione, ecc. è perfettamente funzionale alla sconfitta della politica democratica, cioè della politica che trae alimento dalla vitalità della società civile.
Non solo: più facilmente, sarà funzionale alla sconfitta della politica tout court e alla vittoria della pura amministrazione dell’esistente, cioè alla cristallizzazione dei rapporti sociali esistenti.
Di per sé, il pericolo non è l’autoritarismo, anche se può facilmente diventarlo, le volte in cui si tratta di cancellare o reprimere istanze politiche non integrabili nell’amministrazione dell’esistente.
Il pericolo immediato è la garanzia della stasi, cioè la decomposizione ulteriore della nostra società in emarginazioni, egoismi, ingiustizie, illegalità, corruzione, irresponsabilità.
Se non si tratta necessariamente di autoritarismo, non è nemmeno un semplice ammodernamento della Costituzione. L’impianto su cui questa è stata consapevolmente costruita è quello di una società civile che esprime politica, a partire dai diritti individuali e collettivi, per concludersi nelle istituzioni rappresentative, con i partiti come strumenti di collegamento.
Questa costruzione costituzionale, però, è soltanto un’ipotesi. I Costituenti, nel tempo loro, potevano considerarla realistica. I grandi principi di libertà, giustizia e solidarietà scritti nella prima parte della Costituzione, allora tutti da attuare, segnavano la via lungo la quale quell’ipotesi avrebbe trovato la sua verifica storica.
La società italiana, o almeno quella parte della società che si identificava nei partiti, poteva darle corpo.
Si può discutere se e in che misura questo corpo sia stato fin dall’inizio deformato dalla “partitocrazia” e se, quindi, le istituzioni costituzionali siano diventate uno strumento di affermazione più di partiti, che della società civile, tramite i partiti.
Tutto questo è discusso e discutibile.
C’erano comunque istanze politiche che chiedevano accesso alle istituzioni. La democrazia costituzionale si è costruita su questa ipotesi, che per un certo tempo ha corrisposto alla realtà.
Ora, siamo come a un bivio. La strada che si imboccherà dipende dall’attualità o dall’inattualità di quell’ipotesi.
Noi non contrasteremo le deviazioni dall’idea costituzionale di democrazia soltanto denunciandone l’insidia e i pericoli, cioè parlandone male. In carenza di una sostanza – cioè di istanze politiche venienti da una società civile non disposta a soggiacere a un potere che cala dall’alto – perché mai si dovrebbero difendere istituzioni svuotate di significato?
Le istituzioni politiche vitali sono quelle che corrispondono a bisogni sociali vivi. Se no, risultano un peso e sono destinate a essere messe a margine.
Qui si innesta il compito della società civile, nei numerosissimi campi d’azione che le sono propri, e delle sue tante organizzazioni che operano spesso ignorate e sconosciute, le une alle altre.
La formula di democrazia politica che la Costituzione disegna è per loro. La sua difesa è nell’interesse comune. Non c’è differenza, in questo, tra le associazioni che operano per la promozione della cultura politica e quelle che lavorano nei più diversi campi della vita sociale. C’è molto da fare per unire le forze.
E c’è molto da chiedere a partiti politici che vogliano ridefinire i loro rapporti con la società civile: innanzitutto che ne riconoscano quell’esistenza che troppo spesso è stata negata con sufficienza, e poi si pongano, nei suoi confronti, in quella posizione di servizio politico che, secondo la Costituzione, è la loro.
Sulla crisi della democrazia, non mi pare che ci sia molto da dire, in più di quel che sappiamo. Se non bastasse la realtà di cui tutti facciamo esperienza nei piccoli e grandi rapporti di vita quotidiana – prima ancora che nella vita delle istituzioni -, ci sono studi ponderosi che parlano della democrazia odierna nella luce spettrale di un “totalitarismo capovolto”.
Si elaborano griglie concettuali per “misurare” le democrazie esistenti, e ciò meno per rilevare progressi, e più per attestare regressi verso il punto-zero al di là del quale, di democratico, resta la forma ma non la sostanza.
Ritornano antiche immagini biologiche delle società, paragonate ai corpi naturali viventi che, come nascono, sono destinati a morire.
Nulla, nelle opere degli uomini è eterno e così, oggi, quest’idea del ciclo vitale si applica alla democrazia.
La caduta dei totalitarismi del secolo scorso sembrava avere aperto l’èra della vittoria della democrazia su ogni altra forma di governo degli uomini.
Dalla seconda metà del secolo XX, si cominciò a mettere tutte le concezioni e le azioni politiche in rapporto con la democrazia, diventata quasi un concetto idolatrico comprensivo di tutte le cose buone e belle riguardanti gli Stati e le società, in tutte le loro articolazioni, dalla famiglia, al partito, al sindacato, alle Chiese, alla comunità internazionale.
Questa connotazione positiva era un rovesciamento di antiche convinzioni.
Fino allora, la democrazia era stata associata all’idea della massa senza valore, egoista, arrogante, faziosa, instabile e perciò facile preda dei demagoghi.
Il giudizio negativo di Platone fece scuola nei secoli: la democrazia come regime in cui il popolo ama adularsi, piuttosto che educarsi: «un tal governo non si dà alcun pensiero di quegli studi a cui bisogna attendere per prepararsi alla vita politica, ma onora chiunque, per poco che si professi amico del popolo».
Oggi, nel senso comune, non c’è un ri-rovesciamento a favore di concezioni antidemocratiche.
C’è piuttosto un accantonamento, un fastidio diffuso, un “lasciatemi in pace” con riguardo ai discorsi democratici che, sulla bocca dei potenti, per lo più puzzano di ideologia al servizio della forza e, nelle parole dei deboli, spesso suonano come vuote illusioni.
Non c’è bisogno di consultare la scienza politica per incontrare sempre più frequentemente una semplice domanda - «democrazia: perché?» -, una domanda che, solo a formularla, suona come espressione del disincantamento a-democratico del tempo presente e mostra tuttavia l’oblio di una durissima verità: che, salve le differenze esteriori, prima della democrazia c’è stata una dittatura e, dopo, ce ne sarà un’altra.
Che bisogno c’è oggi, in effetti, di democrazia?
Con questa domanda, ci spostiamo dalla parte della “società civile”.
È lì la sua sede, il luogo della sua forza o della sua debolezza.
Nel senso in cui se ne parla correntemente oggi, la società civile è il luogo delle energie sociali che esprimono bisogni, attese, progetti, ideali collettivi, perfino “visioni del mondo”, che chiedono di manifestarsi e trasformarsi in politica.
Chiedono di prendere parte alla vita politica e di esprimersi nelle istituzioni: chiedono cioè democrazia.
Se la società si spegne, cioè si ripiega su se stessa e sulle sue divisioni corporative, essa diviene incapace di idee generali, propriamente politiche, e il suo orizzonte si riduce allo status quo da preservare, o alle tante posizioni particolari ch’essa contiene – privilegi grandi e piccoli, interessi corporativi, rendite di posizione - da tutelare.
Basta allora l’amministrazione dell’esistente; cioè la tenuta dell’insieme e la tutela dell’ordine pubblico: in altre parole, la garanzia dei rapporti sociali de facto.
Di fronte a una società politicamente inerte può ergersi soltanto lo Stato amministrativo che si preoccupa di sopravvivenza, non di vita; di semplice, ripetitiva e, alla lunga, insopportabile riproduzione sociale.
Ma, se questo – la sopravvivenza - è il mandato dei governati ai governanti, ciò che occorre è soltanto un potere esecutivo forte e un apparato pubblico almeno minimamente efficiente.
Non c’è bisogno di politica e, con la politica, scompare anche la democrazia.
Infatti, mentre ci può essere politica senza democrazia, non ci può essere democrazia senza politica.
Non avendo nulla di nostro che vogliamo realizzare, tanto vale consegnarci nelle mani di un qualche manovratore e, per un po’, non pensarci più.
Con queste considerazioni, si spiega l’orientamento che a poco a poco prende piede, a favore di un ri-disegno dei rapporti tra i poteri costituzionali, con l’esecutivo predominante sugli altri.
L’investitura popolare diretta del capo, depositario d’un potere tutelare illimitato, contrariamente all’apparenza di parole d’ordine come innovazione, trasformazione, riforme, decisione, ecc. è perfettamente funzionale alla sconfitta della politica democratica, cioè della politica che trae alimento dalla vitalità della società civile.
Non solo: più facilmente, sarà funzionale alla sconfitta della politica tout court e alla vittoria della pura amministrazione dell’esistente, cioè alla cristallizzazione dei rapporti sociali esistenti.
Di per sé, il pericolo non è l’autoritarismo, anche se può facilmente diventarlo, le volte in cui si tratta di cancellare o reprimere istanze politiche non integrabili nell’amministrazione dell’esistente.
Il pericolo immediato è la garanzia della stasi, cioè la decomposizione ulteriore della nostra società in emarginazioni, egoismi, ingiustizie, illegalità, corruzione, irresponsabilità.
Se non si tratta necessariamente di autoritarismo, non è nemmeno un semplice ammodernamento della Costituzione. L’impianto su cui questa è stata consapevolmente costruita è quello di una società civile che esprime politica, a partire dai diritti individuali e collettivi, per concludersi nelle istituzioni rappresentative, con i partiti come strumenti di collegamento.
Questa costruzione costituzionale, però, è soltanto un’ipotesi. I Costituenti, nel tempo loro, potevano considerarla realistica. I grandi principi di libertà, giustizia e solidarietà scritti nella prima parte della Costituzione, allora tutti da attuare, segnavano la via lungo la quale quell’ipotesi avrebbe trovato la sua verifica storica.
La società italiana, o almeno quella parte della società che si identificava nei partiti, poteva darle corpo.
Si può discutere se e in che misura questo corpo sia stato fin dall’inizio deformato dalla “partitocrazia” e se, quindi, le istituzioni costituzionali siano diventate uno strumento di affermazione più di partiti, che della società civile, tramite i partiti.
Tutto questo è discusso e discutibile.
C’erano comunque istanze politiche che chiedevano accesso alle istituzioni. La democrazia costituzionale si è costruita su questa ipotesi, che per un certo tempo ha corrisposto alla realtà.
Ora, siamo come a un bivio. La strada che si imboccherà dipende dall’attualità o dall’inattualità di quell’ipotesi.
Noi non contrasteremo le deviazioni dall’idea costituzionale di democrazia soltanto denunciandone l’insidia e i pericoli, cioè parlandone male. In carenza di una sostanza – cioè di istanze politiche venienti da una società civile non disposta a soggiacere a un potere che cala dall’alto – perché mai si dovrebbero difendere istituzioni svuotate di significato?
Le istituzioni politiche vitali sono quelle che corrispondono a bisogni sociali vivi. Se no, risultano un peso e sono destinate a essere messe a margine.
Qui si innesta il compito della società civile, nei numerosissimi campi d’azione che le sono propri, e delle sue tante organizzazioni che operano spesso ignorate e sconosciute, le une alle altre.
La formula di democrazia politica che la Costituzione disegna è per loro. La sua difesa è nell’interesse comune. Non c’è differenza, in questo, tra le associazioni che operano per la promozione della cultura politica e quelle che lavorano nei più diversi campi della vita sociale. C’è molto da fare per unire le forze.
E c’è molto da chiedere a partiti politici che vogliano ridefinire i loro rapporti con la società civile: innanzitutto che ne riconoscano quell’esistenza che troppo spesso è stata negata con sufficienza, e poi si pongano, nei suoi confronti, in quella posizione di servizio politico che, secondo la Costituzione, è la loro.
(Testo integrale dell'intervento di Gustavo Zagrebelsky al convegno “Fare democrazia” - Genova, 8/11/2009)
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