Il referendum in materia elettorale del 21 giugno, rischia di compiere il capolavoro di sostituire una legge pessima, quella attualmente in vigore, con una ancora peggiore.
Una legge che non restituirebbe agli elettori la possibilità di scelta che il “Porcellum” gli ha tolto introducendo le “liste bloccate”, e anzi, li priverebbe anche dell’ultima libertà rimasta.
Vediamo perché.
Tre sono i quesiti sui quali saremo chiamati ad esprimerci.
Uno di essi chiede che venga abrogata la norma che consente ad una stessa persona di candidarsi in più circoscrizioni.
E’ il solo quesito che avrebbe un effetto positivo: impedendo le candidature multiple, eviterebbe che, attraverso l’opzione successiva all’elezione, un candidato praticamente decida chi (evidentemente in base al maggior grado di fedeltà nei confronti del leader) effettivamente prenderà posto in Parlamento.
Ma questo risultato, pur positivo, non cancellerebbe quello che è l’aspetto peggiore del “Porcellum”: RIMARREBBERO COMUNQUE IN VIGORE LE LISTE BLOCCATE, e dunque rimarebbe l’impedimento per l’elettore di scegliere il candidato preferito, e i parlamentari continuerebbero ad essere non eletti, ma nominati da piccoli gruppi di funzionari di partito strettamente legati al capo.
Gli altri due quesiti chiedono che, sia alla Camera che al Senato, i diversi premi di maggioranza che il “Porcellum” prevede siano assegnati non più “alla lista o alla coalizione di liste” che ottiene il maggior numero di voti, come attualmente previsto”.
I due quesiti, infatti, chiedono l’abrogazione delle parole “alla coalizione di liste”, per cui i premi di maggioranza (quello su base nazionale alla Camera, quelli su base regionale al Senato) verrebbero attribuiti alla singola lista che abbia ottenuto più voti.
Significa dunque che, nel caso di presentazione di un numero elevato di liste concorrenti, sarebbe sufficiente ottenere la maggioranza relativa, anche con un consenso elettorale basso, per vedersi assegnato un numero di seggi pari al 55% del totale.
Come sottolinea Fulco Lanchaster, docente di Diritto Costituzionale Italiano e Comparato nella Facoltà di Scienze Politiche dell’Università “La Sapienza” di Roma, darebbe vita ad un sistema di fronte al quale la Legge Acerbo, varata dal regima fascista, finirebbe paradossalmente per risultare “più garantista di quanto prodotto con la legislazione attuale e quella di eventuale risulta” che deriverebbe dal referendum (la legge Acerbo, almeno, prevedeva almeno il raggiungimento del 25% dei voti per l’assegnazione del premio di maggioranza e stabiliva che il premio di maggioranza dei 2/3 dei seggi non sarebbe stato assegnato se nessuna lista avesse raggiunto tale soglia).
Si sostiene, da parte dei promotori dei referendum, che con l’approvazione dei quesiti si andrà verso una semplificazione del quadro politico (e già si potrebbe obiettare che questo risultato è già stato ottenuto con la legge attuale) in direzione dell’affermarsi di un sistema bipartitico.
Che questo realmente accadrebbe, è tutto da dimostrare. L’ipotesi più plausibile, infatti, è che per poter effettivamente concorrere alla conquista dei premi di maggioranza, si verrebbero a formare due listoni (e già questo sarebbe sufficiente a dare ad uno dei due, che in tal caso vincerebbe con una percentuale superiore al 50%, un numero di seggi sufficiente a garantire la governabilità, senza bisogno di poremi di maggioranza) compositi ed eterogenei, da Storace, Romagnoli e Fiore a Mastella e, eventualmente, Casini; da, eventualmente, Casini a Ferrero e Diliberto.
Listoni in cui tornerebbe ad essere determinante il peso delle forze più piccole, che dalla necessità di essere inserite nella lista acquisirebbero un potere di interdizione e di ricatto enorme.
Né per questa via si otterrebbe davvero una semplificazione del quadro politico: è facilmente prevedibile che, dopo aver contrattato ed ottenuto un buon numero di posti in lista (bloccata) in posizione ottimale (dunque con certezza di elezione), i partiti, in particolare i più piccoli, andrebbero poi a costituire gruppi parlamentari distinti.
“La disciplina elettorale che risulterebbe dalla approvazione dei quesiti referendari –sostiene Franco Bassanini- non contiene (non poteva contenere) infatti alcun divieto né introduce alcun limite alla successiva riframmentazione dei partiti che avranno contribuito a formare i due “listoni”, a loro volta definiti attraverso contrattazioni tra le segreterie dei partiti.
Il premio di maggioranza, attribuito a turno unico e senza una soglia minima, costringerà i partiti maggiori a imbarcare nei due listoni tutte le formazioni politiche, anche le più piccole, pena la sconfitta elettorale. Per di più, la normativa risultante dalla approvazione dei quesiti referendari, non contiene alcun rimedio al meccanismo dei premi di maggioranza regionali che rende di fatto ingovernabile il Senato. Né offre un rimedio alla sostanziale espropriazione del diritto degli elettori di esprimere scelte anche sulle persone dei candidati.
Ciononostante, la propaganda del comitato referendario, amplificata da commentatori tanto autorevoli quanto incompetenti, tenta di far credere agli elettori che l’approvazione dei quesiti referendari possa conseguire tutti questi risultati”.
Insomma, il momento in cui si frantuma il quadro politico si sposterebbe (dalla scheda elettorale alla costituzione dei gruppi parlamentari) ma non si cancellerebbe. Con in più, per l’elettore, un’ulteriore beffa: già privato della possibilità di esprimere preferenze in liste plurinominali, gli si toglierebbe anche l’ultima libertà di scelta rimasta, quella, all’interno della coalizione di riferimento, di scegliere un partito piuttosto che un altro, magari proprio dopo aver valutato la composizione delle liste.
Insomma, come sostiene il Presidente Emerito della Corte Costituzionale Piero Alberto Capotosti, “non credo che (il referendum) sia la panacea che risolve i problemi, anzi li aggrava, perché se l’esito del referendum fosse positivo li santificherebbe e li congelerebbe per cui sarebbero immutabili e i difetti corposi che ci sono nell’attuale normativa verrebbero bloccati”.
E questo introduce un’ultima considerazione.
Si sostiene (in particolare il segretario del Partito Democratico Franceschini) che scopo del referendum sia l’abrogazione della Legge 270/2005, ovvero il “Porcellum”, per poi dar vita, nelle aule parlamentari, ad una nuova legge.
Un’affermazione quanto meno azzardata, che in un esame di Diritto Pubblico porterebbe all’immediata bocciatura.
Come Franceschini sa (o dovrebbe sapere) la Corte Costituzionale, in precedenti circostanze, a cominciare da una sentenza (sentenza 29/1987) relativa ad un referendum abrogativo della legge per l’elezione dei membri del CSM, ha sostenuto che in materia di legge elettorale vada esclusa l’ammissibilità di un quesito referendario che ne proponga l’abrogazione totale perché lederebbe il “principio di indefettibilità degli organi costituzionali”, mentre è possibile ammettere referendum in tale materia solo se il quesito prevede un’abrogazione parziale “tale da generare una normativa di risulta coerente al suo interno ed immediatamente applicabile, così da garantire in ogni caso la costante operatività e dunque il rinnovo dell’organo costituzionale” (sentenza 32/1993).
Dunque, ciò che verrebbe fuori dal referendum non sarebbe l’abrogazione della legge attuale e un vuoto legislativo da colmare con una nuova legge, ma una legge pienamente applicabile, con il sigillo datole dall’esito del referendum, dunque dalla volontà popolare (“il sistema che risulterebbe dall’abrogazione delle parole “coalizione di liste” sarebbe perfettamente autoapplicativo. E voglio vedere i parlamentari all’opera, dopo la vittoria dei sì, a modificare la normativa di risulta: gli eventuali dissenzienti avrebbero dalla loro parte l’arma nucleare di un verdetto degli elettori appena uscito dalle urne che codifica la regola del premio alla lista che abbia ottenuto la maggioranza dei voti”: sono parole di Cesare Pinelli, Ordinario di Istituzioni di Diritto Pubblico nella Facoltà di Scienze politiche dell’Università di Macerata).
Questo, ovviamente, non impedirebbe che il Parlamento, in presenza di una volontà dei suoi membri, decidesse di modificare questa legge; ma la questione si sposterebbe qui sul piano politico, e sembra difficile pensare da un lato che l’attuale partito di maggioranza relativa, che sarebbe il primo beneficiario del “Porcellissimum Guzzettae”, sarebbe propenso a modificarlo; e dall’altro, difficile sembra anche pensare alla formazione di una maggioranza trasversale e diversa all’attuale maggioranza di governo in grado di dar vita ad una nuova legge elettorale.
Resta sullo sfondo il problema più generale del referendum in materia elettorale, che proprio in quanto possibile solo se proponga un’abrogazione parziale, crea situazioni nelle quali attraverso lo strumento referendario si vanno a formare nuove leggi, spostando il potere legislativo dalla sua sede naturale e alterando il senso stesso del referendum abrogativo: questione sulla quale i maggiori costituzionalisti italiani molto discutono.
Alla fine, sembra potersi dire che ben avevano visto i Costituenti quando avevano inserito la materia elettorale fra quelle escluse dalla possibilità di esser sottoposte a referendum abrogativo (“Non è ammesso referendum per le leggi tributarie, di approvazione di bilanci, di concessione di amnistia e indulto, elettorali, e di autorizzazione alla ratifica di trattati internazionali», recitava il testo dell’articolo 72, poi diventato 75, nella sua versione originalmente approvata dalla Costituente): una distrazione al momento di stendere il testo finale della Costituzione fece saltare la voce “elettorale” dal testo definitivo, creando la situazione attuale.
Ma è evidente come già in sede di Assemblea Costituente fossero chiari i problemi che ammettere la possibilità di referendum sulle leggi elettorali avrebbe comportato.
Giancarlo Tedeschi
2 commenti:
Finalmente ho le idee chiare!
Grazie Tedeschi!
Nonostante tutte le perplessità e al di là di essere o meno favorevoli ai quesiti referendari, occorre andare a votare per non dare il colpo di grazia ad uno strumento fondamentale di democrazia diretta come i referendum.
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